È uscito da pochissimo per edizioni e/o l’ultimo romanzo di Massimo Carlotto: un titolo intrigante, Il mondo non mi deve nulla e una storia che nasce inizialmente come soggetto teatrale. Al teatro come destinazione ho infatti pensato, durante la lettura, date le ambientazioni, la forza del parlato, le scene circoscritte che però si dilatano su orizzonti più ampi.
La stagione turistica non è ancora arrivata, ma a Rimini di via vai ce n’è sempre e lo sa bene Adelmo, che lì ci è nato e cresciuto. Una vita che è sopravvivenza stagna, fatta di furtarelli e di rimbrotti quando torna a casa con la refurtiva, perché la sua donna, Carla – che lui chiama affettuosamente Carlina – pare non sia soddisfatta e lo consideri un pappamolle, poi è stanca di spezzarsi la schiena lavorando come donna delle pulizie. Adelmo non è proprio al massimo delle energie e della grinta, la concorrenza straniera rende più difficile il suo lavoro di ladro, ma quella sera c’è un dettaglio che gli fa battere forte il cuore: al primo piano di una palazzina in cui abita gente facoltosa, una finestra aperta e il suo buio silenzioso che vi regna dentro sono un invito ad entrare nell’appartamento. Un invito irresistibile e qui parte la vicenda. Si tratta di una storia che dura lo spazio di pochissimi giorni, l’azione sembra ridotta al minimo quando invece viene richiamata continuamente attraverso intenzioni, promesse, flashback esistenziali, il lettore fa più volte i conti con lo spannung e il folto della trama è portata avanti da dialoghi verosimili e straordinari, come quando la germanica Lisa mette Adelmo con le spalle al muro e lo colpisce con il suo impietoso profiling:
«Ho avuto a che fare con gli uomini tutta la vita. E proprio perché li conosco le dico che lei è solo un poveraccio. Come maschio sta al gradino più basso della scala. Perfino i suoi ceffoni non hanno qualità. Sono degni di un subalterno, di un dipendente di infimo ordine. Per osare schiaffeggiare una donna è necessaria un’autorevolezza che inviti immediatamente al perdono. Lei non sa nemmeno di cosa io stia parlando, vero?».
Dietro i dialoghi, si plasmano, pagina dopo pagina, i due protagonisti. Figure potentissime, tanto diverse quanto in grado di far giocare alternativamente forze di repulsione e di riempimento, il loro cinismo è l’alabarda con cui si difendono dalle scudisciate della vita – o, nel caso di Lise, del futuro – e a volte scatta perfino la tenerezza. O il desiderio di approfondire il background, soprattutto quando vengono chiamate in causa qualità come la capacità di mentire:
«La menzogna è l’unico vero strumento di sopravvivenza dell’essere umano. Io ho mentito tutta la vita e mi pento di una sola bugia. Si tratta di un’arte che si affina col tempo e con l’esperienza. Per questo bisogna iniziare da piccoli. I grandi ti insegnano a calibrare la menzogna, a renderla credibile. Mio padre è stato un maestro straordinario. Ogni volta che esageravo lui scuoteva la testa e mi offriva la possibilità di rimediare ritoccando le parole. E così sono diventata una vera professionista».
Ho trovato indimenticabili i due protagonisti, a conferma della capacità profonda di Massimo Carlotto di calarsi nei personaggi e restituirli al lettore. Gli ho chiesto come li avesse costruiti e come fosse nato il romanzo, ecco la sua risposta:
«Il mondo non mi deve nulla è una riflessione sulla crisi iniziata con Niente più niente al mondo. Adelmo, (come il marito della donna di Niente più niente al mondo) è il lavoratore di un tempo, legato a una concezione vita/lavoro profondamente radicata in una classe che la crisi ha spazzato via, creando una sorta di vuoto nelle esistenze di queste persone. Invece il personaggio della croupier riflette una concezione diversa della vita, legata al denaro e al consumo dell'esistenza scandito dal conto in banca. Da tempo poi sono affascinato dalle persone che lavorano nelle grandi macchine del divertimento come può essere una nave da crociera.
Lo spunto nasce da un tizio seduto su una panchina in viale Principe Amedeo a Rimini. Fissava una finestra vuota...».
Quanto conterà l’azzardo, in questa storia di cui il gioco (e la sconfitta) è in parte basamento?
Lo scoprirete alla fine, lasciandovi condurre fuori e dentro un appartamento che sa di mistero e irreparabile. Magari cedendo ogni tanto alle lusinghe dell’illusione, ma durerà poco perché:
«L’illusione è rara. Si crea grazie alla complicità del caso. Le parole suggeriscono, il resto è puro esercizio della fantasia. L’illusione non può confrontarsi con la realtà. Un attimo prima che si incontrino bisogna fare in modo di annullarsi, scomparire, perché il ricordo sia incerto e di tutto quello che è accaduto rimanga solo una vaghissima percezione di piacere, di bellezza».
Qui il book trailer, realizzato da Andrea Melis Sabot.
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