L’atmosfera era cupa perché tutti i partecipanti sapevano che non avevano nulla da off rire a un’opinione pubblica inferocita e a un presidente in preda al panico. Il primo a parlare fu Beaumont; era un uomo tarchiato con i capelli tagliati a spazzola ed era sempre vestito in modo trasandato. Colpiva il contrasto con Crozet, anche perché Beaumont apparteneva a una famiglia di antica nobiltà del Périgord, mentre l’altro era di origini modeste.
« Non abbiamo ancora identificato l’attentatore; come sapete, il viso è stato devastato dallo scoppio ed è irriconoscibile. Sappiamo solo che è presumibilmente ’di origine mediterranea’, come usa dire la polizia per riferirsi a un magrebino. Pare fosse molto giovane. Posso confermare il numero delle vittime: diciassette morti e quindici feriti di cui cinque ancora molto gravi. »
« Rivendicazioni? » chiese Garland.
« Molte da sedicenti gruppi islamici, per lo più non credibili. Ne esaminiamo in particolare due. Il primo è una frangia di AQMI, l’al-Qaeda del Maghreb islamico, l’altro è un gruppo terrorista legato al regime di Gheddafi inattivo da molto tempo; in questo caso si tratterebbe di una rappresaglia contro l’intervento in Libia. Tuttavia, perché una sinagoga? Confesso che entrambe le piste mi lasciano perplesso. »
Garland e Crozet ebbero un moto di stizza e si volsero verso Anne Dumont.
« Niente, nessuna traccia... » rispose lei sforzandosi di sostenere il loro sguardo ostile, « e francamente comincio a domandarmi...»
« L’unica cosa che lei si deve domandare », Garland l’interruppe astiosamente, « è perché la rete non funziona. »
Garland era bruno, piccolo e indossava un vestito di una taglia superiore alla sua. Aveva costantemente l’aria cupa e minacciosa, ma era uno dei funzionari più competenti della ristretta cerchia presidenziale.
« Calma! » intervenne Crozet. « Se cominciamo a sbranarci andremo a sbattere contro il muro. »
Anne capì che doveva recuperare Garland. Sfoderò il suo migliore sguardo magnetico.
« François, capisco la rabbia di Philippe. Chiedo solo tempo prima di decretare che siamo ciechi. »
Garland stava per replicare, presumibilmente per scusarsi, quando squillò il telefono sul tavolo di Crozet. Quest’ultimo si alzò per andare a rispondere, ascoltò in silenzio per un minuto e depose il ricevitore. Si voltò verso di loro, fece un passo per riprendere il suo posto ma vacillò e dovette appoggiarsi alla scrivania. Li guardò bianco in volto; a stento riuscì a parlare.
« Un altro kamikaze... la moschea di Belleville durante la preghiera del venerdì... è stata una strage. »
L’ufficio aveva ampie finestre e la luce era intensa, ma Anne Dumont ebbe l’impressione che fosse calato un buio profondo. Levò lo sguardo verso gli alberi del giardino, che improvvisamente parevano assumere forme minacciose. Beaumont fu il primo ad alzarsi.
« Vado subito sul posto e vi farò sapere », disse. Poi, rivolto a Crozet: « La prego di dire al presidente che questa sera riceverà la mia lettera di dimissioni ».
« E anche le mie », soggiunse Anne Dumont alzandosi a sua volta.
« Vi ringrazio », rispose Crozet sforzandosi di riprendere la calma. « Le trasmetterò al presidente raccomandandogli di respingerle.»
Tornando in ufficio, il colonnello Dumont cercava di dare un senso all’accaduto. Rue des Rosiers era già stata teatro di un attentato, ma questo era successo molti anni prima. Le rivolte che stavano sconvolgendo il mondo arabo e il nuovo attivismo francese in Africa potevano spiegare molte cose, ma il fatto che la sua rete di agenti e informatori non avesse lanciato alcun segnale era inspiegabile. Il governo israeliano era furibondo e reclamava misure severissime. Ora un secondo attentato, questa volta contro una moschea; non aveva senso. Infine c’era la situazione internazionale, con la Francia esposta in Libia e su molti, troppi fronti.
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