Il cinema ispirato al cinema.
Da sempre il cinema ha attinto ad altri media per lo sviluppo dei suoi contenuti. È normale vedere film ispirati a racconti, romanzi, fumetti, videogiochi e giochi.
Quando la stessa operazione viene compiuta sul prodotto cinematografico invece, si grida spesso all'atto di lesa maestà. Il remake come tradimento del capolavoro originale. Certo perché spesso un film viene rifatto perché a suo tempo è stato un grande successo, di pubblico o di critica, o di entrambe.
In effetti i passaggi in questo caso sono addirittura due. Oldboy è innazitutto un manhwa, ossia un fumetto coreano, di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi, dal quale il regista coreano Park Chan Wook ha tratto un acclamato omonimo film, vincitore tra gli altri del Gran Prix al Festival di Cannes).
Dimentichiamoci questi precedenti.
Oldboy, diretto da Spike Lee è la storia di Joe Doucett (Josh Brolin), un pubblicitario alcolizzato, con un matrimonio e una esistenza a pezzi. La sua vita cambia il giorno in cui viene rapito e tenuto segregato per 20 anni. Fuori nessuno lo cerca perché la ex moglie è stata uccisa violentemente e Joe è l'unico indiziato, anzi l'unico di cui gli inquirenti siano certi della colpevolezza. La figlia Mia, che quanto Joe viene rapito ha tre anni, viene adottata.
I venti anni di Joe passano lenti. Con la TV che ossessivamente gli mostra squarci da incubo sul mondo reale, tutti collegati a quel delitto e alla figlia.
Quando venti anni dopo viene liberato, comincia per Joe, che nel frattempo si è disintossicato, rinforzato e forse redento, la caccia al suo misterioso carceriere. Una missione di vendetta che lo porta a chiedere l'aiuto del vecchio amico Chucky (Michael Imperioli), a ricevere l'aiuto delle giovane infermiera Marie Sebastian (Elizabeth Olsen), a conoscere l'infido gestore della sua prigione Chaney (Samuel L. Jackson), a intersecare le intenzioni del misterioso Adrian (Sharlto Copley). Tutto in una costa contro il tempo per salvare la figlia Mia (Elvy Yost), tenuta in ostaggio.
Gli interrogativi del film sono tanti, e la sceneggiatura di Mark Protosevich è impeccabile nel gioco di incastri e di rimandi. Tutto fila, tutto torna alla fine, non solo le trovate ispirate al modello originale, ma anche, ed è questo l'importante, tutto quello che è completamente diverso.
Lo sceneggiatore dimostra di essere capace di compiere la stessa operazione di rilettura che viene da sempre effettuata a teatro, quando da una drammaturgia ben scritta si riesce ad estrapolarne una che è abbastanza diversa dall'originale da vivere di vita propria, pur conservano i temi di fondo.
La sovrapposizione del rapporto con i media attuali, con internet e gli smarphone, non risultano posticciamente applicati a una storia che non li prevedeva, per esempio, ma riescono a diventare fonte di importanti spunti narrativi, come il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione, esplicitato dalla invadenza ossessiva degli schermi per tutto il film. Schermi che possono essere sia di televisori che di telefonini che maxi schermi, ma che sono il tramite tra il protagonista e cioè che percepisce come “il vero”, e che ne influenzano ogni atto o decisione.
Anche la regia di Spike Lee è personale. Lee padroneggia tutto il lessico della narrazione per immagini con maestria, dal primo piano al primissimo piano, riuscendo a essere disturbante senza essere sgradevole.
Quando si concede il vezzo di citare l'originale, nel piano sequenza del momento centrale del film, in cui un indemoniato Joe affronta un gruppo numeroso di feroci delinquenti, lo fa aggiungendo del suo, con il coraggio di un cineasta vero, che non teme confronti.
Se come ho detto la sceneggiatura è impeccabile, lo è anche perché il film non puntella con dialoghi sovrabbondanti le scene che invece vengono raccontate dai fotogrammi. Tutti i particolari inquadrati, ma tanche quelli percepiti fuori campo, così come tutti i movimenti di macchina, contribuiscono alla immersività nella narrazione tipica del cinema.
Merito della fotografia di Sean Bobbit che alterna anche formati di pellicola differenti, varianti dal 35 mm al super 8, a seconda del livello di dettaglio richiesto dalla scena.
La spersonalizzazione del luogo, grazie alle scenografie di Sharon Seymour, che ricostruiscono a New Orleans una città statunitense comune e intercambiabile, è una scelta che mira a dimostrare l'universalità dei temi trattati della vendetta, della caduta all'inferno e dell'anelito alla redenzione, o quantomeno alla pace, di protagonisti e antagonisti.
L'anonimato dei luoghi interni invece, a partire dall'agghiacciante cella in cui è rinchiuso Joe, esalta la prestazione degli attori.
Bravissimo è Josh Brolin, naturalmente sopra le righe. Perfetto Sharlto Copley. Brava anche la Olsen. Senza voto invece Samuel L. Jackson che come ormai presta solo il suo ghigno con il pilota automatico. Molto naturale anche Imperioli, il cui personaggio che da osservatore esterno diventa sempre più coinvolto, è credibile perché anche in questo caso lo stile di recitazione è estremamente naturale.
Una citazione meritano il coordinatore delle scene di lotta, JJ Perry, e il coordinatore degli stunt, Mark Norby, che diventano coautori nel momento in cui le scene violente sono il racconto del travaglio interiore di Joe che si esplicita nel modo più dirompente. Se il già citato piano sequenza è una scena capolavoro, il merito è anche loro.
Oldboy di Spike Lee è in definitiva un film bello, perchè è ben scritto, ben girato e ben recitato, a prescindere dal film o dal fumetto di provenienza. Un film che racconta con le peculiarità del linguaggio del cinema temi di forte impatto senza sconti, ma anche senza inutili estetismi o compiacimenti.
Da vedere.
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