Tra i dieci e i vent’anni ho fatto una decina di traslochi totali. Per “totali” intendo che è stata trasferita tutta la casa. Due a Bologna, sette in Lombardia e uno per tornare a Bologna. A scuola iniziavo l'anno didattico in un paese e lo finivo in un altro, questo ha contribuito a sviluppare una sorta di sfiducia nelle certezze che mi ha sempre accompagnata. Mi considero apolide, perché sono nata a Bologna da madre ferrarese e padre napoletano, poi ho vissuto un po’ a Milano, un po’ in Brianza (in quest’ultima non sono mai riuscita ad ambientarmi, nonostante gli amici, nonostante il primo amore, nonostante alcuni bei ricordi: c’era troppo grigio nell’aria) e a 20 anni sono tornata in Emilia, ma era tardi per farmi veramente accogliere e poi Bologna non concede più i grandi abbracci di una volta. Ci vivacchio bene, tutto sommato. Mi sposto in autobus, in macchina e preferibilmente in bici. La mia città preferita, istintivamente, è Roma, perché ogni volta che ci torno ho la sensazione di respirare un pizzico di eternità. Ma lo so: è solo un’illusione. I luoghi importanti sono parecchi, in primis citerei l’America Latina e Cuba per finire con la Puglia. Senza nulla togliere alle vacanze montane o a quelle d’arte, se devo scegliere non ho esitazioni: mare, mare, mare.

Fin da piccola disegnavo: le immagini erano complemento a sceneggiature semplici, che con gli anni sono diventate più complesse. Avrei voluto frequentare il liceo artistico, ma mi è stato imposto il classico e ho disegnato, per tutti i cinque anni, sotto al banco, mentre i professori spiegavano. In quegli anni ho sfornato i più bei disegni della mia vita. Poi ho deposto carta e matita e da lì è iniziato tutto: non avrei mai completato un romanzo se non avessi smesso di disegnare.

Intendendo per “scrittura” tutte le fasi che vanno dall’ideazione alla stesura e alla correzione, non ho ritualità particolari. Quando mi dedico a un libro ci penso sempre, in maniera ossessiva, anche fastidiosa per chi mi sta accanto. Non deve essere piacevole avere a che fare con una persona che si astrae continuamente e si stacca dalla realtà per concentrarsi altrove. L’ho ripetuto spesso: credo che la nostra sia una forma di schizofrenia concessa agli “artisti”. Meglio così.

Una vita molto frenetica mi pone continuamente nella condizione di centellinare il tempo. Lo schermo non mi intimidisce, anzi: il momento di isolamento e silenzio è talmente agognato che, quando finalmente riesco a chiudermi in camera da letto – è lì il pc –, riverso nel file quello che ho macinato in testa durante il giorno. Delle volte resto sveglia la notte per scrivere – o leggere – quello che non sono riuscita a scrivere e leggere di giorno.

Vorrei scardinare l’assunto che scrivere sia facile. Non è vero. Il mestiere dello scrittore è bellissimo e prezioso, ma è difficile. Per me è difficile convogliare in ordine delle idee e una fantasia completamente indisciplinate. È difficile la costanza, ma paga. Quando non sei affermato a livello nazionale, è difficile rapportarsi a una quotidianità che ti considera un animaletto strano. È frustrante collegarsi e scollegarsi in continuazione da quei mondi paralleli che alimentano l’estro creativo, così come è tragica la precarietà della nostra condizione di lavoratori a metà. Non veniamo pagati tanto quanto spendiamo in ore di lavoro/energie/emozioni, non abbiamo contratti fissi, garanzie sul futuro, ci troviamo a investire sulle nostre opere in un periodo economico pessimo, dipendiamo dall’incognita di un lettore non prevedibile e, delle volte, dipendiamo anche dal capriccio di chi decide.

Mi mantengo insegnando lettere alle superiori e sono abbastanza svincolata da urgenze economiche. I soldi non mi interessano, la gente ricca non esercita alcuna attrattiva su di me – molto fascino esercitano invece gli individui curiosi, quelli dall’animo nobile, quelli pazzi, quelli colti ma non i presuntuosi che, al contrario, non reggo.

Ho letto ultimamente dei libri pieni e ricchissimi, ne ho anche scartati parecchi che non parlano di niente e si limitano ad autoglorificazioni, neppure troppo nascoste, degli autori.

L’ambiente letterario è variegato. Conosco persone meravigliose, da cui ho imparato tanto e sto continuando a imparare. Cito, tra loro, Valerio Evangelisti, Loriano Macchiavelli, Massimo Carlotto, Colomba Rossi, Simone Caltabellota, Filippo Casaccia, Fabrizio Lorusso, Lorenza Ghinelli e tutta la redazione di Carmilla.

Di contro, però, ci sono anche personaggi da cui stare alla larga. La mia sensazione è che in giro ci sia un diffuso disimpegno verso questo tempo, disinteresse verso l’altro e ciò si riflette anche nelle arti. Ho visto scrittori darsela a gambe, quando c’era da prendere una posizione. Li ho visti glissare, inchinarsi alle scelte più comode, trincerarsi dietro un moralismo fasullo solo per dare l’impressione di aver qualcosa di importante da dire. Non sono tutti così, per fortuna. 

No, non ho mai desiderato “eliminare” nessuno, se si intende se ho desiderato che morisse qualche nemico. Quando una persona mi ha fatto del male o ha cercato di arrecarmi danno, l’ho depennata dalla mia vita, tutto qui. Alla fine, la nostra esistenza la costruisce chi ci circonda, ho capito che sono incapace di rapportarmi con alcune categorie, quindi sfuggo. I prepotenti, le persone molto frustrate, quelle ansiogene, quelle egotiche, ad esempio, così concentrate sul loro fazzolettino che nemmeno alzano il naso per vedere se piove o splende il sole.

Quando sono rimasta senza genitori, per mantenermi all’università lavoravo alla mattina come autista dell’autobus, turno dalle 5.45 alle 12.30. Tornavo a casa, mangiavo, mi riposavo un po’ e studiavo fino a sera. Nessuno mi ha mai regalato niente, non ho pubblicato per intercessione e mi sono sudata ogni piccolo passaggio.

Sono consapevole che delle volte vado avanti come un mulo e che questa determinazione possa risultare antipatica. In un momento sociale in cui le donne tra di loro faticano a fare rete e in cui, in generale, vengono oggettivizzate e infamate appena muovono un dito, in cui sono declassate o sottopagate – e il gender pay gap è uno solo dei livelli di misurazione delle discriminazioni –, in cui non hanno voce in capitolo nelle alte sfere politiche e dirigenziali, in un paese in cui la fanno da padrone il clientelismo e i favoritismi, una donna che si rimbocca le maniche e lavora onestamente perché ha deciso che vuole fare della scrittura il perno della sua vita, verrà facilmente criticata. In questo caso “arrivismo” è il termine che i mediocri usano al posto di “ambizione”: perché la donna, se ambiziosa, è elemento di disturbo, soprattutto quando fa un po’ di strada.

Dicono che io sia simpatica perché mi piace ridere, sorridere, fare battute sceme. È inesatto. Più che simpatica delle volte, ad essere sinceri, sarebbe più giusto dire che sono un po’ infantile, certo imprevedibile. Gioco volentieri. Poi sto in silenzio e penso ai miei libri, dopo magari torno seria e mi perdo in grandi considerazioni sulla vita – che in casa chiamano, sfottendomi, “perle di saggezza”. Però ci prendo, eh. Una perla di saggezza? Dico la più banale. Non dobbiamo aver paura della morte, perché siamo già morti mille giorni. Quello che siamo noi, adesso, è un corpo nuovo rispetto a quello che eravamo – che so – due, tre anni fa. Nuovi capelli, nuova pelle, nuovo sangue. Il nostro corpo è assuefatto alla morte, ormai.

Sono un animale sociale incapace di rinunciare ai suoi momenti di solitudine e comunque credo sia soprattutto uno l’elemento che mi caratterizza e che investe il desiderio di scrivere, di affondare dentro la vita, di portare avanti il lavoro a scuola così come di ascoltare la musica latino-americana: la passione.

Amo senza riserve la mia famiglia: Micol e Matteo, mio marito Gabriele, mia sorella e suo marito, che si son presi cura di me quando ero piccola. È risaputo, la mia debolezza sono anche le mie nipotine, con loro ogni tanto scherzo e dico: «Al mio funerale, se si farà un discorso di commiato, rigorosamente con una salsa in sottofondo di Roberto Roena, si aggiungerà anche che: Marilù andava pazza per le sue nipotine Virginia e Marcella». (mi raccomando, qualcuno provveda eh!)

Ho delle amiche del cuore che conosco da tanti anni e che considero come sorelle: Marcella, Caterina, Maricetta, Lavinia, Serena, Raffaella.

E Anna, para siempre.

Ho diversi amici, colleghi scrittori, conoscenti stretti o gente che vedo di rado per causa di forza maggiore, ma con cui intercorre un rapporto di stima o affetto. Tu, Mauro, che ti nascondi dietro questa intervista, sei uno di questi, ma già lo sai.

Insomma, di gente bella ce n’è parecchia e preferisco dedicarmi a questa. Come nelle recensioni: se un libro non mi piace lo chiudo, anziché denigrarlo, e dedico il mio tempo ai libri che mi lasciano qualcosa. C'è da tener conto che, per le mie classi, correggo una media di 90 temi al mese: di stare a scovare l’errore anche nei libri che leggo proprio non ne ho voglia.

No, non ho mai conosciuto i miei nonni. Ciononostante ho un rapporto stretto col passato, per un breve periodo ho fatto ricerca storica per l’IsReBo (Istituto per la Resistenza di Bologna) ed ero deputata alle interviste. Il recupero del passato attraverso l’oralità: i racconti degli anziani che rievocavano il dopoguerra mi davano una sensazione strana ma rassicurante. Era come se, attraverso le loro narrazioni, ascoltassi le voci dei nonni che non avevo mai conosciuto.

Col mio corpo ho un rapporto ambivalente. Quando ero ragazzina venivo spesso presa in giro perché ero piccolina e ciò, per assurdo, mi ha assuefatta a quel difetto. Ho un senso della simmetria rodato dagli anni di disegno – Milo Manara era il mio maestro putativo – e questo mi porta a scovare in me mille imprecisioni, che poi nemmeno mi dispiacciono. Ovviamente non ve le dico, vi bastino quelle già evidenti. Vesto prevalentemente di nero perché è un colore che mi piace. Mi trucco passando spesso per vanitosa in realtà, più che vanità, la mia è una forma abortita d’arte: da quando sono ragazza perseguito coi trucchi e con le spazzole sorella, nipoti e amiche. Mi piace pasticciare con la bellezza, concedermi uno spazio di creazione, manipolarla. Al di là del discorso esteriore, il tarlo che mi affligge è un potente mal di testa che mi fa visita almeno 10 giorni al mese. Se non intervengo nell’immediato con dei farmaci strong è un bel guaio. Sarei disposta a vendere l’anima al diavolo per esserne liberata: qualche neurologo illuminato è interessato a un’anima dannata?

Ho paura di tutto e di niente. La morte non mi fa più paura, la mia morte intendo. Ho dovuto fare i conti da ragazza con l’idea della fine e l’ho elaborata per anni. Oggi me ne sono liberata, ma resta comunque – come paura – la morte degli altri. Il dolore continuo mi spaventa. La malattia. L’ignoranza, anche. L’individualismo e altri mali dell’uomo. Ah. Le cavallette mi terrorizzano da quando, a quattro anni, mia madre si era addormentata con la televisione accesa e io mi sono vista da sola un film horror con delle locuste che divoravano una testa umana. A proposito… mi piacerebbe rivederlo, quel film: qualcuno sa il titolo?

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