Da Ashes for time a The Grandmaster, una manciata d’anni per diventare pur altri rimanendo se stessi. Da combattimenti poco più che lampi (Ashes for time), vera e propria sfida invincibile alla più incrollabile fiducia nella percezione, a quelli attuali, sontuosi come poche volte s’è visto (le coreografie di lotta di Yuen Woo-ping sono da antologia), ma soprattutto di grande e immediata fruibilità visiva.
Lo spunto, storico, è quello di tracciare attraverso il gesto elevato alla sua massima potenza la vita di Ip Man (Tony Leung Chiu Wai) in quel di Foshan (città natale del leggendario maestro di Bruce Lee e della scuola di kung fu Wing Chun) all’epoca dell’invasione della Cina da parte del Giappone (1936). Nel far ciò non soltanto Wong Kar wai ribadisce le coordinate del suo cinema (il melodramma continua ad esserne la colonna portante…), ma anche di un certo modo di intendere il gongfupian come genere che d’ora in poi potrà annoverare tra i suoi capolavori anche The Grandmaster.
Un inizio fulminante quanto conciso: “Kung fu, due parole. Orizzontale e verticale. Fai un errore: orizzontale. Sii l’ultimo a restare in piedi e vincerai”, due scene da antologia, il combattimento iniziale sotto la pioggia e l’altro alla stazione, una regia sempre a suo agio sia nelle parti dialogate sia in quelle di azione, montaggio, direzione degli attori, fotografia, ogni cosa al suo massimo splendore.
Basta, anzi sopravanza…
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