Non c'è alcun bisogno che io debba ingraziarmi Angelo Marenzana. Primo, perché siamo amici. Secondo, siamo abituati sin da quel bel dì a dirci la verità nuda e cruda, ovvero se qualche scritto reciproco ci fa magari schifo la buttiamo giù come va detta. Questo ci ha permesso di lavorare assieme per anni, ma soprattutto ci ha concesso di divertirci. Perché, se la letteratura (praticata) non la prendi per il suo verso ironico, rischi di cadere vittima di ossessioni un po' maniacali. Invece da anni – io, lui e il Maratoneta Giorgio Bona - ci facciamo tante sane ghignate. Su quel che scriviamo, sulle reazioni che suscitiamo, sui successi e sugli insuccessi. Spirito alessandrino, “di pianura”, un po' cinico, certo spiazzante, ma mai troppo serio (o serioso, il che è ancora peggio). Perché quando uno di noi (ma non siamo solo noi tre – noi tre siamo gli amici...) piazza un titolo da una major (nel caso del Marenza, Rizzoli), siamo tutti memori che dietro c'è stato un bel gioco di squadra, quello che portiamo avanti da anni, tra antologie nero-piemontesi, fantasmi alessandrini e/o giapponesi.
Pistolotto sin troppo lungo esaurito, Angelo con L'uomo dei temporali ha scritto un fottutissimo capolavoro. Non perché il commissario Augusto Bendicò (qui alla sua terza avventura, anche se la major per ovvie motivazioni di marketing la spaccia per prima...) sia impegnato in una indagine particolarmente complicata e ricca di colpi di scena (anzi, sono per fortuna assenti complicazioni strumentali e modaioli colpi di scena ogni 3 X 2), ma perché la Città Grigia che ci restituisce, alla vista e alla coscienza, l'affilata e nitida scrittura di Angelo è davvero la culla del seme inquieto dalla quale poi è scaturita la nostra generazione, quella degli anni Cinquanta.
Vedo di spiegarmi meglio, se ci riesco: Angelo in questo libro riesce a farmi “vedere” un'Alessandria che io non ho mai visto e me la fa vedere e toccare con l'abilità straordinaria di chi se ne porta l'essenza nell'anima. Cioè Angelo compie un'operazione, che presumo proprio non essere a tavolino ma nascere da un profondo “de palea” antropologicamente remoto e inalienabile dal suo DNA, a mia memoria paragonabile a certi racconti, sempre più rari purtroppo, di mia madre quando si lascia andare con straordinaria lucidità dagli anni Quaranta, ai terrori notturni di Pippo, alle odiose vessazioni delle squadracce e ai tristi destini delle famiglie ebraiche. Capirete che non è poco. Perché mia madre, laggiù e in quel tempo, ci ha transitato e i traumi di quegli anni stanno ancora tutti lì, dentro di lei, a germinare e a produrre ammonimenti preziosi per ogni generazione a venire. Angelo proprio no perché è persino più giovane di me, che sono nato nel '50. E allora?
E allora si chiama “stoffa del grande narratore”, quello che si lascia invadere dallo psichismo collettivo, passato e presente, di una città (e solo qui rubo qualche parola alle note ufficiali...) in bianco e nero dal cielo sempre velato che attende sospesa.
Che attende chi o che cosa? Beh, intanto l'Uomo dei Temporali. Un fantasma, chissà di quale mente, che aleggia come metafora di un'umanità che vuole sopravvivere anche pagando costi troppo alti e/o sottobanco. Alessandria, 1940, non così troppo lontana.
E, capisco, non ho detto una parola sulla trama. Ma per consigliarvi il fottutissimo capolavoro non serve.
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