Santino si sollevò dal divano e aspettò che Rosario continuasse a raccontare.

«Ti ricordi Marian?»

«Sì, ho presente». Il protettore moldavo delle signorine che usava frequentare il buon Rosario una volta al mese, a stipendio incassato.

«Mi vuole fare il culo perché dice che le ho maltrattato una ragazza. E le ragazze sono patrimonio di me, dice lo stronzo».

«E tu che le hai fatto?»

«Niente, davvero. Aiutami, Santi’».

Ci mancava pure lui. E dire che fino a poche ore fa non sarebbe stato un problema.

«Hai visto cosa cazzo hai fatto?», la vocina tornò a gracchiare.

Calma e sangue freddo. La soluzione c’era. Il tempo anche. Una settimana poteva bastare, ai Beccamorti.

* * *

Gli avevano dato il Numero Dieci, anche se fantasista non lo era mai stato. Maurizio Ceravolo, classe ’27, quando giocava con gli amici in piazza Pitagora a Crotone, non sapeva neanche se la palla era rotonda o quadrata. Niente numero di maglia, ma due cifre su una targa affisse in una camera d’ospedale.

Era consapevole di essere arrivato al capolinea. Respirava male e non riusciva quasi più a muoversi senza l’aiuto di qualcuno.

Non aveva paura di morire perché l’aveva consumata tutta durante l’ultima Guerra. In fondo una morte così - scivolare nell’oblio senza accorgersene, nel sonno - l’aveva sempre desiderata. Aspettava solo il suo turno.

Santino gli fece saltare la fila una notte di primavera, mentre ne stava rivivendo momento per momento un’altra, precisamente quella del primo aprile del ’43, quando sua sorella nacque dentro un rifugio e sopra la sua testa e su tutta Crotone fischiavano le bombe alleate.

Santino si prodigò subito ad avvertire i suoi sodali. I Beccamorti, di solito reperibili h24 su un numero di cellulare, non rispondevano.

Mentre nessuno ancora sapeva che Maurizio Ceravolo era morto, l’infermiere raggiunse a piedi le pompe funebri.

Sulla serranda c’erano i sigilli della polizia giudiziaria.

Il perché l’avrebbe scoperto solo poche ore dopo.

Vennero a prelevarlo mentre era al solito bar del policlinico, giusto tra il quinto caffè corretto e la sesta sigaretta del mattino. Sapeva che era tutto finito. Cercava di consolarsi proseguendo a occhi aperti quel bel sogno in cui era giovane, bello e senza panza. Lo arrestarono prima che abbassasse i sedili della Lancia Fulvia parcheggiata in una pineta vicino al mare.

Mirella lo stava già baciando.

* * *

L’avevano ricoverata la sera prima, anche se non era del tutto necessario.

«Così domani mattina sei in pole position», le disse l’infermiera che l’aveva accolta.

La stanza era singola e dotata di ogni comfort. Stava a una camera del policlinico come un cinque stelle sta a un bagno chimico. L’infermiera le mostrò dove sistemare i vestiti e tutto il resto, compresa una cassaforte per conservare il contanti.

Prima che la sua quasi collega se ne andasse, Mirella chiese: «Me la leva una curiosità?»

«Anche due».

«Perché la clinica si chiama Villa Babalú? Dico, non andava bene un classico Sant’Antonio o una Santa Rita? »

L’altra sogghignò: «Non sarà né la prima né l’ultima a chiedermelo. È una stravaganza del direttore. Babalú Ayé è una divinità africana, protettrice della pelle».

«Ma un nome così non allontana i pazienti?»

«Lei è qui, no? Passi una buona notte. Domani sarà una giornata impegnativa».

Cenò, guardò un po’ di TV, mandò messaggi fino a farsi venire i crampi alle dita. Si mise a letto.

Che strano, stare dall’altra parte. Domani sarebbe andata sotto i ferri. Avrebbe voluto che l’infermiera l’avesse rincuorata un po’, niente di che, cose del tipo: «Stia tranquilla, andrà tutto bene» o «Non si preoccupi, non sentirà nulla». Ed era una clinica privata che faceva chirurgia estetica, mentre i suoi poveri vecchietti tutti i giorni si sottoponevano a interventi di pura macelleria.

Si ripromise d’essere più gentile con loro.

Prima di prendere sonno pensò a Santino.

«Non crederai mica che con questo regalo te la darò, eh?», gli aveva detto.

Lui, com’era solito, era arrossito come un addobbo natalizio.

«Lo considererò un anticipo sul nostro business, ok?»

L’aveva conosciuto meglio e, tutto sommato, non era male. Un po’ grezzotto, ma un bravo cristiano. S’era dimostrato molto comprensivo. Le era stato vicino quando Bebè se n’era andato.