Mentre il medico di guardia finiva di ricomporre il cadavere coprendolo col lenzuolo fin sopra la testa, entrò Santino dichiarando che i cazzoni giù non rispondevano, che stavano dormendo e che avrebbe fatto un salto ad avvertirli.

Rizzuto annuì con la testa, poi sparò nella flebo del Numero Sette un tranquillante che lo stese nel giro di un paio di minuti.

Minuti nei quali Mirella non smetteva di farsi domande su quella morte che pareva casuale come una scoreggia in bagno. Così andò in sala infermieri e, col cuore in gola, recuperò dal cestino il flacone e lo infilò in tasca come una ladra.

Scappò fuori a fumarsi una sigaretta che le chiarisse un po’ le idee.

Appena arrivata davanti l’entrata principale, neanche il tempo di prendere l’accendino, ed ecco il colpo di grazia: Santino che si intratteneva con quei due, che parevano due Mussolini fatti male.

I Beccamorti, quelli delle pompe funebri di fronte.

Poi ci si mise pure quella frase di Santino rubata nell’aria, Qua non muore nessuno, senza il mio permesso. Infine, quando vide il caposala indicare a quei due la via più breve per presentarsi di fronte all’entrata dell’obitorio, ce n’era abbastanza per perdere il sonno e stringere il flacone che aveva in tasca fin quasi a romperlo.

E adesso quel flaconcino ce l’aveva davanti, proprio lì, sul tavolo.

E bravo Santino, proprio ingegnoso.

Se ne andò a letto che erano le dieci passate. Chiuse le finestre e si infilò sotto le coperte.

Prima di spegnere la lampada sul comodino guardò un’ultima volta il suo trofeo. Sopra c’era scritto Midriatic Fenilefrina, due parole che messe assieme sembravano un insulto ma che per Mirella ora erano le più belle del mondo.

Una volta suo cugino Bebè aveva sentenziato: «Quando la minna balla, a capu sballa». Quando le tette ballano le teste sballano. Sante parole. Non le avrebbe mai dimenticate. Era la chiave del successo di una donna al passo coi tempi. E Bebè era un uomo riuscito, un self made man, uno che gli altri definivano arrampicatore e che per lei era l’incarnazione del Guerriero della Fortuna. Ogni volta che incontrava il cugino d’estate, di ritorno da Milano e tutto tirato e firmato dalla testa ai piedi, pensava che la sfortuna e la miseria non esistono: basta solo volerlo.

Per le tette nuove ci volevano non meno di quattro-cinquemila euri. Adesso sapeva dove procurarseli.

* * *

Faceva freddo, così accese i termo per togliere almeno un po’ di umidità, prima di infilarsi sotto le coperte. Si trascinò in cucina e si versò il grappino della buonanotte. O meglio, del buongiorno, visto che erano le otto passate. Lo ingollò tutto d’un fiato e fumò una sigaretta alla velocità della luce. Andò a darsi una ripulita ai denti, perché pure il dentista, quello strozzino, reclamava la sua parte, poi si spogliò e si mise a letto.

E mica era facile prender sonno.

Quella notte Santino era di turno. Teneva d’occhio il Numero Nove da un po’. E quel vecchiaccio gli faceva i dispetti morendo e resuscitando tante di quelle volte da farlo imbestialire. E una volta una complicazione polmonare, e poi quella renale e poi ancora una febbre che non si sapeva da dove venisse... e allora! Su tutto c’era una cardiopatia che ancora non si era scompensata e che gli pareva un ambo che si ostinava a non uscire alle estrazioni del lotto.

Lo doveva capire subito che quella era una notte di merda.

Il Numero Diciannove, ottantasette anni e ciccia moltiplicato due si lamentava come un ossesso. La sua cartella diceva che il diabete lo aveva reso cieco in attesa di finirlo di divorare. Aveva combinato un macello: s’era staccato da solo la flebo e perdeva sangue come un animale in macellazione.

«Mamma mia, mamma mia, mamma mia bella».

Santino infilò i guanti di lattice e in quattro e quattr’otto lo ricompose sul letto. Riprese con maestria la vena e gli sparò un sedativo che fece sfumare in men che non si dica i mammamia in una sinfonia di tromboni gutturali.

Forse faceva meno casino prima, quando almeno non russava, pensò, passando davanti la porta della stanza del Numero Nove. Proprio lì di fronte c’era il numero Sette. Accanto a lui, insensibile al casino che il Diciannove aveva sollevato in reparto, Mirella sfogliava Cosmopolitan sotto un faretto dalla luce tenue. Si accorse di lui e lo salutò sventolando la manina.