La sfortuna non esiste. È un’invenzione dei falliti... e dei poveri.

Titta Di Girolamo

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Una nuova società

All’inizio, era come un punto che oscillava in fondo al corridoio tra i padiglioni B e C. Si spostava da un muro all’altro con ritmo regolare.

Destra sinistra, sinistra destra.

Sciacquo, strizzatina.

Sinistra, destra.

Poi, con la lentezza delle grandi opere, il puntino diventò la sagoma di una donna che disegnava miraggi lucidi sul pavimento. Lo straccio non bastava: in pochi secondi il linoleum riguadagnava il grigio stagionato dei pestoni di medici, parenti e malati.

Primo mattino. L’orario delle visite ai degenti era ancora lontano e all’inserviente ch’era un’oscillazione all’orizzonte visivo rimaneva da lavare solo il corridoio, il bar che si trovava a metà del tunnel e, alla fine, l’atrio.

La donna conosceva bene il suo mestiere. Era metodica come un orologiaio.

Ci voleva altro detersivo. Profumo chimico che sovrastasse le centinaia di caffè e chili di panini bruciati sulle piastre, l’odore della preoccupazione e del dolore della malattia, la puzza dell’indifferenza del personale medico.

Entrò nel bar del policlinico universitario e, mentre sollevava le sedie sui tavoli, fece l’inventario delle persone nella sala: un medico che mostrava orgoglioso al barista un’appendice in formalina dalle dimensioni spropositate e un uomo e una ragazza, costretti dal primo autunno a indossare sopra la divisa da infermiere un cardigan nero. Tutta gente appena smontata dal turno di notte.

Mirella, la giovane tirocinante, era pronta a iniziare un pressing stretto su Santino, navigato caposala di geriatria, mammasantissima del corpo infermieristico. Si era vicini al calcio d’inizio d’una partita nervosa, difficile. In palio, un trofeo pieno di soldi sporchi.

Sciacquo, strizzatina. Sinistra, destra.

Santino chiese all’uomo dietro al bancone di correggere il fondo di caffè con un po’ di Candolini. Ingollò l’intruglio d’un colpo, poi tirò fuori dalla tasca un pacchetto spiegazzato di MS morbide e ne offrì una a Mirella: «Andiamo fuori a fumare».

«Ok, ma non quella merda da muratore, fratello».

«Oh, poca confidenza, Mire’. Di fratello ne ho uno solo. E mi basta!»

Santino si perse per qualche istante nei suoi pensieri, estraendo una sigaretta e schiacciandola per tutta la sua lunghezza tra indice e pollice: «Ti dicevo: mio fratello se ne fotte dei turni di notte e di lavare il culo ai vecchi. Dorme comodo, lui». Poi pagò i suoi novanta centesimi e l’euro e ottanta del caffè al ginseng della ragazza.

Attraversarono l’atrio deserto. Sulla destra c’era l’accettazione e lo sportello URP. Appena fuori, si abbottonarono ben bene nei cardigan di lana-cotone.

Mirella tirò fuori un portasigarette Louis Vuitton mentre Santino accese la sua col Bic giallo grattato al nonno Numero Nove: di sicuro, quello non ne aveva più bisogno.

Era morto tre notti fa.

Per scacciare il cattivo pensiero, Santino si chiese, visto il giro universale di accendini trafugati, chi erano i fessi che li compravano foraggiando il resto dell’umanità fumante.

Mirella intanto fissava lo smalto sulle unghie, sollevando spirali grigie di fumo. Era pronta per l’offensiva.

Il caposala cercò di deviare il discorso su amenità e stronzate. Scartò l’argomento meteorologico per mantenere una certa dignità: «Domani notte sei di nuovo di turno?»

«No, ho già dato oggi. Centocinquanta euro pulite pulite per dormire sulla poltrona accanto al Numero Sette, gentilmente offerte dalla famiglia del suddetto. Come stipendio per una bella dormita non mi sembra male, no?»

«Per niente. Anzi, considerando che probabilmente il Sette nella pala caca carte da cinquecento, potresti anche chiedere di più».

«Senti che bel discorsetto che c’ho fatto: sa com’è, signora figlia del Numero Sette, ho gli esami da preparare. Un affitto da pagare. E voi sapete quanto spremono gli studenti in questa città e quanto vale il sonno per una come me».

Santino fiutava il pericolo. Sapeva che Mirella era una stronza arrivista patentata. Intuiva che il cetriolo stava scivolando dritto verso le sue terga. Tenne duro, sperando di sbrigare la pratica il prima possibile: «Hai sbagliato mestiere, bella mia. Altro che infermiera, dovevi fare l’assicuratrice, l’avvocato o la televenditrice».