L’ambiguità è la chiave di lettura di The Quiet American (id., 2002) di Phillip Noyce. E altrimenti non potrebbe, essendo tratto dal romanzo Il tranquillo americano (The Quiet American, 1955) di Graham Greene che usa lo spionaggio come metafora dei rapporti umani e viceversa.
Siamo in Indocina negli anni ’50. La Francia sta rapidamente perdendo il controllo del nord del paese, si formano nuove forze politiche nazionaliste al sud sostenute neppure troppo nascostamente dagli americani. Questo il quadro generale della vicenda che si apre con una visione notturna del fiume Saigon e la voce del protagonista (Caine) che ci introduce con un passo letterario alla magia dell’Oriente. La storia, dopo un inizio che ci mostra un omicidio avvenuto in un vicolo, riprende poi alcuni mesi prima.
Sembrerebbe un classico triangolo amoroso. Thomas Fowlwer (Michael Caine appunto) è un attempato ma gagliardo corrispondente inglese, non troppo motivato al lavoro per la verità. Solo tre articoli in un anno. È il classico espatriato caro alla letteratura esotica da Conrad in avanti. Ha una moglie inglese a Londra, ma vive per la giovane amante Phuong (Do Thi Hai Yen), dolcissima ma manovrata dall’arcigna sorella che da ballerina a pedaggio la vorrebbe sistemare con un occidentale disposto a sposarla. Fowler purtroppo non è in grado di farlo perché la moglie bigotta non gli concederà mai il divorzio. In più i suoi ritenendo poco interessante l’Indocina vorrebbero richiamarlo in patria. Con un espediente non nuovo alla fantasia di Greene il protagonista cerca d’inventarsi una storia sensazionale pur di restare in Asia. Guardacaso la trova ma con essa arrivano anche i guai.
Questi sono incarnati in Pyle, un giovane americano che sembra operare per una organizzazione umanitaria. Il ragazzo ha il fisico e il faccino di Brendan Fraser, eroe cartone animato della Mummia, idolo di un certo pubblico gay e adatto a impersonare un idealismo di facciata desideroso di salvare l’Indocina dal comunismo quanto dal colonialismo francese. È lui l’americano tranquillo che s’inserisce nella coppia Fowler-Phuong promettendo amore, giovinezza e anche un matrimonio. Phuong diventa la metafora del Vietnam. Ma non tutto è come sembra. Anzi nulla lo è.
Lentamente, mentre i rapporti sentimentali con Phuong s’incrinano proprio per le seducenti promesse di Pyle, Fowler comincia a intuire oscuramente che la sua “storia” sensazionale può avere qualcosa di vero. Nel paese è in atto un complotto che sancirà la definitiva sconfitta dei francesi ma metterà le basi per il futuro conflitto che vedrà gli americani sempre più partecipi con le conseguenze che sappiamo. E il dramma è che Pyle non è completamente corrotto.
Alla fine crede realmente che mettere bombe capaci di uccidere decine di innocenti servirà a salvare in futuro innumerevoli vite, è convinto che la lotta al comunismo sia una missione anche se deve passare per mezzi discutibili, ed è anche convinto di poter “salvare” Phuong dal vecchio amante che non la sposerà mai.
Dopo una terrificante sequenza di un attentato in piena Saigon, Fowler vede chiaro. E allora si lascia tenare da un’ultima soluzione che potrebbe risolvere tutti i suoi problemi. Il suo segretario vietnamita (il cinese Tzi Ma che i conoscitori del cinema di Hong Kong conoscono bene) è in realtà un agente comunista. Fowler si lascia convincere ad attirare Pyle in un tranello. Il giovane, sinceramente convinto di poter essere ancora amico del giornalista benché gli abbia fregato la donna e abbia confessato il suo ruolo politico, si reca all’appuntamento ma ne ricava una pugnalata. A quel punto Fowler può assistere all’escalation della guerra.
Tutto girato con un’enfasi controllata sulla magia dell’Oriente, qualche scena d’azione realistica e una grande interpretazione di Caine che questa volta lascia i panni della “simpatica canaglia” che lo ha contraddistinto in tutta la sua carriera per dar corpo a un personaggio umanissimo, dolente, ritratto di quel modo di intendere lo spionaggio che esclude eroismo e spettacolarità a priori.
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