Nel 1993, Liegi celebrò i novant’anni dalla nascita di Georges Simenon con una mostra in cui l’omaggio letterario fu presto sopraffatto dallo stupore e dalla meraviglia. A partire da uno strano padiglione di vetro, nel quale l’autore avrebbe dovuto esibirsi dinanzi al pubblico scrivendo “live” un romanzo, per dare prova della sua proverbiale velocità di stesura. Dopo una reliquia così peculiare, sbiadivano le vetrine che esponevano i manoscritti originali, le collezioni di pipe, i lapis spuntati dalle mille parole di Simenon, gli schemi delle storie, appuntati per scaramanzia sul retro di buste gialle.
Adesso è la ricorrenza del personaggio più carismatico uscito dall’inuguagliabile prolificità creativa di Simenon. Il canone del commissario viene ribadito in La prima inchiesta di Maigret, scritto e pubblicato da Simenon nel 1948, quasi venti anni dopo l’esordio del personaggio. La storia si svolge nel 1913, cento anni fa. Jules Maigret è un giovane poliziotto del quartiere di Saint-Georges, nel IX arrondissement. Soltanto lui crede all’urlo udito dal flautista Justin Minard nella villa di rue Chaptal, dove dimora l’altolocata famiglia Gendreau-Balthazar e si verificano le circostanze di un caso che l’investigatore risolve, guadagnandosi la promozione al Quai des Orfèvres.
Più tardi, Georges Simenon avrebbe dichiarato ad André Perinaud: «In genere, uno scrittore tenta di arricchire il proprio vocabolario [...], ma a che serve se il novanta per cento dei lettori non capisce? [...] Io cerco di scrivere in una lingua che la maggioranza della gente possa comprendere.» Lo stile affinato per riduzione è perfetto per il commissario Maigret, della Police Judiciaire di Parigi, originario della Bretagna come la famiglia Simenon. Il segugio che costituisce un monumento letterario europeo del Novecento che troneggia ben al di sopra della borgata “gialla”, “poliziesca”, “thriller” o mille altre etichette denigratorie e minimizzanti, volte a delimitare un “genere” capace di contenere ben più di tanto degenere letterario.
Simenon fa debuttare Maigret nel 1929, con il romanzo Pietro il lettone (Pietr-le-Letton). La trama è esemplare, e funge da modello dell’intera epopea che si snoderà per il commissario. Un uomo subisce la suggestione carismatica del fratello, finché ne viene deluso, trasformandosi di conseguenza in un assassino. Maigret lo smaschera, non prima di averne scandagliato la sofferta interiorità. Simenon aveva in mente il personaggio e i suoi bagni di umanità fin da quella che per l’autore è la fucina di tutti i sogni, l’adolescenza. «Già all’età di 14 anni mi dicevo: perché non dovrebbe esistere una sorta di medico che sia al tempo stesso medico del corpo e dell’intelligenza? In altre parole, una specie di medico che conosca un individuo, la sua età, il suo fisico, le sue possibilità, e che possa dirgli che deve prendere questa o quella strada? È con questi intendimenti che ho poi creato il personaggio di Maigret. [...] Maigret è per me un accomodatore di destini.»
Quando Simenon passa al giallo, domina l’enigma fine a se stesso, nel rigoroso rispetto delle regole di Van Dine. Dupin, Lecoq e Holmes sono i prototipi ottocenteschi dell’investigatore dedito alla logica e alla deduzione, reincarnato in Poirot, Philo Vance & C. Simenon inizialmente rispetta il canone. Ma non può durare, se «per lui, la libertà è la forma più elevata d’istinto», come sostengono Boileau e Narcejac, maestri del giallo francese. Così Maigret diventa un personaggio davvero unico, irripetibile. Un poliziotto vero non in termini di naturalismo e realismo, bensì per forza intrinseca, caratteriale. Né potrebbe essere altrimenti: Simenon prende i suoi protagonisti dalla strada e, al pari di Balzac, si limita a farli «andare fino in fondo».
Jules Maigret non ha metodo, non ha preconcetti, non è un campione di arti deduttive. Per questo gli sarebbe superfluo un personaggio di spalla, come Watson per Holmes e Hastings per Poirot. Lui ha soltanto una moglie, con la quale confidarsi e semmai confrontarsi in qualche battibecco tipicamente coniugale. «Io non penso mai» afferma Maigret. O ancora: «Io non traggo conclusioni.» (Maigret in Olanda) «La verità umana era una sola. Non bisognava scoprirla con un ragionamento rigoroso, con una logica ricostruzione dei fatti, ma sentirla.» (Uno scacco di Maigret). Insomma, un indagatore che persegue il suo fine per empatia, identificazione con il prossimo. L’“accomodatore di destini” esercita la giustizia con il metodo Stanislavskij: si identifica appieno con il colpevole, o semplicemente con il sospetto. Nessun abile interrogatorio, solo pedinamenti, appostamenti, una fisiologia dell’indagine che riesce a conciliarsi perfino con il temperamento sedentario di Maigret (nessuno riuscirà mai a convincerlo di traslocare dall’appartamento di Boulevard Richard-Lenoir). Addirittura in Il pazzo di Bergerac risolverà il caso senza muoversi dal proprio letto, in una replica del Don Isidro Parodi di Borges e Bioy Casares.
Maigret è talmente autentico che in avvenire acquisterà l’aura leggendaria di Sherlock Holmes. Circolerà la voce che fosse esistito realmente. Ai biografi di Simenon si sostituiranno i biografi del commissario. Si scriveranno apocrifi in cui vedremo Maigret e la sua signora conservati oltre il tempo per qualche artificio scientifico rievocare casi inediti o mai narrati nel corpus delle 102 avventure ufficiali. Un’avvisaglia di questo culto da venire, prima ancora della mostra di Liegi, si trova a Delfzijl, la cittadina olandese in cui fu scritto Pietro il Lettone.
Là è stata eretta una statua a Maigret, scolpita da Pieter Dhondt. Sotto di essa, in una celebre foto, Simenon posò con alcuni degli interpreti cinematografici e televisivi del suo personaggio: l’inglese Rupert Davis, il tedesco Heinz Ruhmann e Gino Cervi. Quest’ultimo ha stampato da noi l’immagine del commissario nelle memorie nostalgiche fiction televisiva in bianco e nero, cadenzata dalla voce adombrata di disperazione di un altro mito nostrano, Luigi Tenco che canta la sigla, Un giorno dopo l’altro. Senza dimenticare che dietro il successo televisivo RAI di Maigret si profila l’ombra anticipatrice di un altro idolo. La serie infatti fu curata da Andrea Camilleri, che decenni dopo avrebbe creato il commissario Montalbano, a sua volta grande lettore di Simenon. Inoltre, non va dimenticato che al cinema persino Jean Gabin si cimentò con Maigret in Maigret e il caso Saint Fiacre (Maigret et l’affaire Saint-Fiacre, 1959). Più di recente, Bruno Cremer ha riportato il commissario in televisione.
Se nessuno ha trovato eccessivo che si parlasse di “cattedrale Proust” per definire l’autore della Recherche, lo stesso dovrebbe accadere per la “cattedrale Simenon”. Certo, in questo secondo caso, la mole architettonica della personalità e della scrittura si profila ad un impatto più diluito nel tempo. Mentre i volumi corposi della “Recherche” offrivano già in prima edizione una prospettiva monumentale, gli snelli e avvincenti romanzi di Simenon sembravano più destinati al veloce oblio delle edicole ferroviarie.
Senza contare che all’inizio li firmava con degli pseudonimi: Georges Sim, Jean du Perry, Christian Brülls e altri. Essi contenevano già le strutture portanti della cattedrale, ma difettavano della svettatura dei pinnacoli e delle guglie, dell’imponenza dei doccioni, dei colori di finestre istoriate. Erano libri che Simenon buttava giù ad una celerità imbattibile perfino dall’attuale videoscrittura. Il primo, Le Roman d’une dactylo, venne steso nel giro di una mattinata sulla terrazza di un caffè parigino, in Place Constantin-Pecqueur. Fra il 1925 e il 1934, Simenon scrisse più di cent’ottanta “romanzi popolari”. Anche le loro copertine dal gusto sensazionale e “pompier” campeggiarono in un padiglione di quella mostra di Liegi. A ricordare che tutti, pur non avendo ancora la qualità degli esemplari successivi, furono una scuola di narrativa insostituibile. Il grande belga affinò i suoi strumenti linguistici. Iniziò per lui quel singolare procedimento di riduzione del lessico che è la base di una scrittura universale.
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