Il ritorno delle aquile (The Holcroft Covenant), un film del 1985 tratto da uno dei primi romanzi di Robert Ludlum, Il patto (The Holcroft Covenant, 1978 - Rizzoli 1979). All’epoca passò un po’ inosservato malgrado la regia di John Frankenheimer. Forse perché all’epoca andavano film più “muscolari” del tipo di quelli realizzati da Stallone e Schwarzy e questo era un thriller complottistico condotto ancora con un passo e un impianto visivo tradizionale. Invece c’era un cast di bravissimi interpreti, Michael Caine, Michael Lonsdale, Lilli Palmer e un manipolo di caratteristi di mestiere.

La storia è tipicamente ludlumiana, con il patto scellerato per far rinascere il Reich a quarant’anni di distanza servendosi di un patrimonio nascosto in Svizzera e della facciata fornita da un architetto, figlio di un gerarca ma portato negli USA e cresciuto da bravo americano. Varietà di ambientazioni, un intreccio che se a tratti sembra un po’ telefonato (non è difficilissimo intuire chi siano i veri cattivi) riserva comunque una buona dose di emozioni.

Da New York, passiamo a Ginevra, a Londra, poi a Berlino e di nuovo in Svizzera. Una conferma che la spy story (qui siamo nel filone complotto nazista che ha una sua lunga tradizione) si sviluppa nel modo migliore in un set europeo.

            

Frankenheimer (che in seguito ci regalerà un meraviglioso Ronin) dirige senza infondere un tocco particolare. Il taglio è, per dirla tutta, quasi televisivo, ma resta sempre un ottimo film, una storia prima di tutto con personaggi umani.

Siamo lontanissimi da Bourne o da altre storie di Ludlum, il romanzo appartiene ancora al periodo in cui per lo scrittore valeva la vecchia formula di Hitchcock dell’uomo comune invischiato in un intrigo molto più grande di lui. Non sembri fuori luogo il paragone con Hitch. In fin dei conti tra Noel Holcroft e il protagonista di Intrigo internazionale ci sono diverse similitudini. Non solo il fatto di venire catapultati, con la complicità di una bella fanciulla, in un universo pericoloso con regole mortali.

Il legame con la madre è particolare e caratterizzante. Serve a inquadrare un uomo tranquillo, se vogliamo un po’ ingenuo, che trova la capacità di reagire, di essere più crudele degli altri all’occorrenza. E qui è proprio il caso. Holcroft è un tipico newyorkese, non ha neanche la patente, e si ritrova di fronte la prospettiva di accettare la conduzione di una fondazione benefica per miliardi di dollari. Chi non cederebbe di fronte alla prospettiva di diventare un benefattore, di fare ammenda per i crimini di quel padre che non ha mai conosciuto, per di più stimolato dal brivido di “una vita da spia” e dal bel faccino di Victoria Tennant.

Grandissimo Mario Adorf che riesce ancora una volta a trarre il meglio dalle sue origini italo-tedesche disegnando un personaggio di secondo piano ma di grandissimo impatto. Anthony Andrews forse non è esattamente un genio del male ma funziona ugualmente.

La trappola è tesa e anche se le caratterizzazioni dei luoghi risentono di un certo manierismo americano (in particolare la “peccaminosa” Berlino) gli ingredienti sono esattamente quelli che lo spettatore si attende.

          

Se il romanzo ormai è difficilmente reperibile anche tra le ristampe perché considerato “minore”, il film gli restituisce anche ad anni di distanza tutto lo smalto di spettacolo “da camera”, di quelli da vedersi comodamente seduti in poltrona in una sera piovosa, con il gusto di entrare in un intrigo semplice da seguire, non troppo spaventoso ma ben diretto e interpretato. E così perdoniamo quella lacrimuccia di troppo nel finale a Michael Caine che è stato (e sarà) ancora uno dei grandi del thriller cinematografico internazionale.