Quarantaquattro anni prima della nascita di Cristo, Marco Tullio Cicerone inserisce un passaggio di grande importanza nella sua opera De natura deorum (La natura degli dèi). Possibile, si chiede l’autore, che qualcuno davvero ancora creda che il mondo sia il «risultato dell’incontro fortuito» di elementi solidi? Per spiegare l’assurdità di questa convinzione, Cicerone concepisce un esempio per assurdo: è come se lanciando «un mucchio di pezzetti d’oro, con su incise le ventuno lettere dell’alfabeto, possano formarsi gli Annali di Ennio. Ignoro se la casualità possa creare anche solo un verso».
Il celebre letterato latino si rifà ad una lotta che nei secoli precedenti ha acceso gli animi dei grandi pensatori greci, una questione che sarebbe rimasta “scottante” nei millenni a venire: l’atomismo. Possibile che un mondo così perfetto, dove tutto funziona con millimetrica precisione, sia null’altro che un mucchio di atomi disposti a casaccio? Quest’idea ha infiammato le menti di molti grandi pensatori, che spesso si sono guadagnati critiche feroci - Dante nell’Inferno si scaglia contro l’atomista Democrito, «che ’l mondo a caso pone» (IV, 136) - e che per quasi duemila anni ha creato una specie di rivalità tra fazioni: chi dice che tutto è creato dal caso, chi dice che in tutto c’è un disegno. L’ovvia presenza nel discorso del pensiero religioso intorbida le acque e rende ancora più accesi gli animi.
Non stupisce quindi che diciotto secoli dopo la frase di Cicerone troviamo lo stesso esempio per assurdo in un’opera del canonico Salvatore Mancino - professore dell’Università di Palermo - che, scagliandosi contro l’atomismo di Denis Diderot, esordisce con questo esempio paradossale: «Asserisca [Diderot] che una tra le infinite combinazioni casuali delle lettere dell’alfabeto abbia potuto produrre l’Iliade» (da Elementi di filosofia, 1846).
Che siano gli Annali di Ennio o l’Iliade di Omero, la tesi è chiara: delle parole gettate a caso non potranno mai formare un’opera completa.
Fra Cicerone e Mancino troviamo I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, nella cui terza parte l’autore si diverte alle spalle di inventori e filosofi “alla moda” del suo tempo immaginando l’Accademia di Lagado come se fosse la Libreria di San Vittore del Rabelais: un posto pieno di prodigi ridicoli.
Lavorando sei ore al giorno da molti anni, il risultato è una grande raccolta di libri che l’inventore mostra con orgoglio: un guazzabuglio di frasi sconnesse (broken sentences) da cui però in futuro sarà possibile trarre un corpus unico che contenga tutte le arti e le scienze del mondo. Swift non parla di scimmie - in realtà si sta divertendo a prendere in giro Raimondo Lullo e la sua Ars magna, secondo cui identificati i concetti logici base si potrebbero poi “mixare” per tirare fuori ogni tipo di discorso filosofico - ma il procedimento è lo stesso: dato tempo sufficiente, l’utilizzo di quella macchina, cioè gettare dadi a caso, darà prima o poi un’opera completa.
Una decina d’anni dopo l’affermazione di Mancino in Inghilterra appare un’opera controversa che è pronta a cambiare per sempre il modo di vedere il mondo: L’origine delle specie di Charles Darwin. Nel concetto di evoluzione che Darwin va tracciando sembrano fondersi le due fazioni di cui si parlava prima: l’evoluzione non è casuale, non può esserlo, ma è un insieme di procedimenti che entra in funzione all’apparire di un evento casuale (come una mutazione genetica o uno squilibrio ambientale). Quindi il mondo non è regolato dal caso, ma neanche da un progetto divino: invece di cercare un terreno comune, il risultato è che sono scontenti tutti - atomisti e non - e le polemiche si inaspriscono.
Un giorno del 1860 l’evoluzionista ed agnostico Thomas Huxley - autore di saggi come Evoluzione ed etica e Il diavolo nei dettagli nonché nonno del celebre Aldous Huxley, l’autore de Il mondo nuovo - organizza con dei compagni di Oxford un dibattito agguerrito sull’evoluzionismo, a cui partecipa anche l’arcivescovo Samuel Wilberforce. Il “duello” fra i due è rimasto celebre, e ad un certo punto Huxley se ne esce con una provocazione chiedendo all’arcivescovo di mettergli a servizio sei scimmie con una macchina da stampa: dato abbastanza tempo, afferma che quelle scimmie potranno riprodurre non solo le opere di William Shakespeare, ma tutti i volumi della British Library.
Quanto ci sia di vero in tutto questo è difficile da stabilire: Huxley ha più volte riportato, in epistolari ed autobiografie, il suo dibattito con Wilberforce ma da nessuna parte è riportata la provocazione “scimmiesca”.
Grazie ad una falsa attribuzione, dunque, Huxley risulta essere l’ignaro creatore dell’ipotesi scimmiesca, idea storpiata da continui rimaneggiamenti tanto da infiammare gli anni Trenta del Novecento con un concetto contrario a quello che era esistito nei precedenti duemila anni: lettere scritte a caso ora possono creare un’opera completa.
L’argomento non sfugge ad un giovane critico letterario di nome Jorge Luis Borges che, dalle pagine della rivista “Sur”, nel 1939 lo cita all’interno di un pezzo giornalistico di grande lirismo narrativo: La biblioteca total (raccolto in seguito in Borges en «Sur» (1931-1980), Emecé, Buenos Aires 1999). Il testo in questione diviene la base strutturale per il celebre racconto La Biblioteca di Babele (1941), ed alla provocazione di Huxley (o che lui pensa essere di Huxley) Borges risponde in modo divertito: invece di sei scimmie con una macchina da stampa, «a rigor di logica basterebbe una sola scimmia immortale».
«È stato John Dee il primo a parlare dell’Orango Eterno» fa dire Verissimo a Borges: non solo anticipa la questione delle scimmie scrittrici di almeno quattrocento anni, ma mette in bocca a Borges un nome (quello di Dee) che egli non ha mai pronunciato! «Dotato di una penna resistente, di inchiostro sufficiente e di una superficie infinita - racconta il Borges apocrifo del romanzo di Verissimo, - avrebbe finito per scrivere tutti i libri conosciuti, oltre a creare alcune opere originali». Il ragionamento fallace è alieno alla concezione borgesiana: l’inserimento dell’infinito nell’equazione fa sì che sia ridicolo pensare che questo orango crei solo le opere conosciute. Semmai creerà tutte le combinazioni esistenti delle lettere, cioè un numero titanico di opere inintelligibili (come aveva predetto Borges nella sua Biblioteca di Babele): un esercito di libri pieni di lettere a casaccio, di cui solo un’infima parte corrisponderebbe ad opere note.
Non pago di aver inventato un Borges esperto di John Dee e del Necronomicon - argomenti che non trovarono mai l’interesse del poeta bonaerense - Verissimo attribuisce ad uno studioso del Cinquecento il possesso di un animale sconosciuto all’Europa finché nel 1641 arrivò in braccio a Nicolaas Tulp (che raccontò chiamarsi orang-utan, che in malese significa “uomo della foresta”). È vero comunque che a John Dee vengono attribuite infinità di “cose strane”, e gli autori del fantastico - e fantasiosi autori di pseudosaggistica - hanno amato attribuirgli scoperte e invenzioni che vanno a braccetto con l’impossibile, quindi attribuirgli anche un Orango Eterno non è certo la più implausibile delle tesi.
Alla fine, allora, sei scimmie e una macchina da stampa possono dare vita all’opera di Shakespeare? Un Orango Eterno può creare ogni incrocio di parole possibile, quindi anche le opere a noi conosciute? Malgrado la sicurezza dell’inventore del paradosso, l’astronomo Jean Jeans - «può capitare che un gruppo di atomi di riunisca in una cellula vivente: dato sufficiente tempo, questo accadrà di sicuro, così come accadrà di sicuro che sei scimmie, dato sufficiente tempo, scriveranno un sonetto di Shakespeare» (The Mysterious Universe, pag. 5-6) - la risposta “tecnica” può essere una sola: ovviamente no. I matematici più ottimisti affermano che la probabilità che questo avvenga non è zero, quindi c’è in effetti una possibilità contro un numero vergognosamente alto di possibilità contrarie. E stiamo parlando del tempo intercorso dalla nascita dell’universo ad oggi: circa una ventina di miliardi di anni.
«Se potessimo avere a disposizione un esercito sterminato di 1046 scimmie - spiega sarcastico Richard Dawkins nel passaggio de L’orologiaio cieco (The Blind Watchmaker, 1986) in cui analizza il paradosso, - ognuna con la sua macchina per scrivere? In tal caso una di esse batterebbe solennemente la frase: “Methinks it is like a weasel” [un verso shakespeariano], e un’altra scriverebbe quasi certamente: “Cogito, ergo sum”. Il problema, ovviamente, è che noi non potremmo mai mettere assieme un numero così sterminato di scimmie. Se tutta la materia dell’universo fosse trasformata in carne di scimmie, non avremmo ancora scimmie a sufficienza».
Dove nasce tutto questo? Dove nascono i concetti, le parole e le frasi umane? Dove nascono le opere letterarie? In quella mente umana che sa scegliere, non casualmente, quelle combinazioni lessicali che più sappiano “infettarla”. Come sapevano bene gli oracoli greci, che «segnando i dadi con lettere, e gittando le sorti, nelle parole, che risultavano dalle accoppiate sillabe, leggevano la risposta fatale», come scrive il nostro Baldassarre Bonifacio nella sua seicentesca opera La Regina de’ Cieli. Gli oracoli non avevano bisogno di un tempo infinito perché, con le loro lettere scritte su dadi, si formassero dei concetti: bastava solo un lancio, al resto pensava le mente umana.
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