Chiariamo prima di tutto un punto. Il film The Bourne Supremacy (2004), pur condividendo lo stesso titolo originale, non ha nulla in comune con il romanzo uscito nel 1986 e tradotto in Italia come Doppio inganno [Rizzoli 1986]. Una spy story che per buona parte si svolgeva in Oriente e richiamava in servizio David Webb per scongiurare un complotto volto a scatenare una guerra mondiale con la Cina. Tempi di Guerra fredda. Il romanzo era buono benché mancasse della grinta del primo. Lo stile e la complessità di Robert Ludlum c’erano ancora tutti ma, come disse l’autore in una intervista, nasceva da un’idea che avrebbe potuto tranquillamente essere sfruttata per un altro eroe. L’agente letterario lo consigliò invece di adattarla nuovamente al personaggio di Jason Bourne.
Il film segue invece il fortunato primo episodio del reboot. La regia questa volta è affidata a Paul Greengrass in virtù del successo di Bloody Sunday (2002), film che di certo non è d’intrattenimento puro, ma rivelava le sue evidenti doti di dinamicità alla regia. In effetti è proprio il ritmo e il passo imposto da Greengrass alla storia che fanno la differenza.
L’inseguimento per le strade di Mosca e un frenetico corpo a corpo tra Bourne e un altro assett (interpretato dal ceco Marton Csokas, in quegli anni molto attivo sulle scene da xXx a Il Signore degli Anelli, sino a comparire recentemente in un piccolo e sottovalutato film di spionaggio, Il debito) saranno la pase per la rielaborazione delle sequenze d’azione del nuovo Bond.
Il film ha una trama piuttosto complessa e richiederebbe una visione del precedente.
Di fatto sono passati diversi mesi. Bourne e Marie vivono da hippies a Goa in uno scenario colorito ma non cartolinesco. Mentre la giovane tedesca ha trovato il suo habitat naturale, Bourne si allena ma non riesce a tacitare gli incubi. La memoria, benché distorta, comincia a tornare, soprattutto con le immagini di un omicidio avvenuto a Berlino ma non inquadrabile in nessuna missione affidatagli da Conklin nell’ambito di Treadstone. Conklin è morto ma i maneggi personali del suo gruppo, realizzati con i mezzi della CIA, hanno lasciato strascichi. In particolare uno scandalo legato a un petroliere russo sponsorizzato proprio da Conklin e dal suo superiore Abbott (sempre interpretato dall’ottimo Brian Cox). Il problema reale è che entra in gioco la “faccia pulita della CIA” sempre ammesso che possa essercene una.
Joan Allen interpreta Pamela Landy, spigolosa e zelante capo missione CIA incaricata di riaprire quel caso proprio a Berlino. Abbott, di tutte le soluzioni, se ne esce con la peggiore. Crea un incidente nel quale sia l’agente CIA che la sua fonte con le informazioni vengono eliminati e lascia una traccia non troppo difficile da seguire che porta sino a Bourne. Contemporaneamente un killer russo (interpretato da un ruvido ma poco carismatico Karl Urban) dovrebbe eliminare Bourne in India e tagliare tutti i fili rimasti in sospeso. Pessima valutazione perché nell’incidente in cui Bourne viene dato per morto la pelle ce la lascia solo Marie.
Jason Bourne adesso ha uno scopo per rimettersi in attività. E subito gli è chiaro che i responsabili debbano essere “quelli della CIA”. Poco importa che dalla terrorizzata Nicky (recuperata dal film precedente) apprenda che Treadstone è un’operazione chiusa. Si trova a Berlino e, oltre alla rivelazione di un nuovo programma di killer chiamato Blackbriar, scopre finalmente il significato dei suoi ricordi.
Qui il twist veramente interessante dell’intera serie. Bourne apprende e ammette di essere stato un assassino. Se nel primo film si rifiutava di uccidere un dittatore sanguinario davanti ai suoi figli e riservava pallottole e cazzotti per killer e cattivoni, qui deve fare i conti con una terribile realtà. Pur condizionato (ancora non sa perché) ha comunque inscenato un omicidio-suicidio di una coppia innocente. Il diplomatico russo che infesta i suoi ricordi stava passando informazioni in grado di incastrare il petroliere e la cricca di Abbott. Doveva morire assassinato nella sua camera d’albergo e già questo sarebbe pesante da sopportare. Ma è entrata in scena anche la moglie dell’uomo per cui il doppio omicidio è stato consumato e trasfigurato in un atto di follia dai torbidi retroscena. Se aggiungete che la coppia aveva una figlia cresciuta con la convinzione che i genitori si siano ammazzati a vicenda, potete immaginare l’effetto dirompente sul personaggio di Bourne (e sullo spettatore) che, di base, è considerato un buono.
Dal complesso intrigo che vede coinvolti Abbott, Landy, Nicky, il miliardario russo e il killer il nostro eroe esce vittorioso. Smaschera Abbott con tanto di confessione registrata e seguente suicidio di questi, corre in Russia e affronta l’assassino di Marie in una sequenza carica di virtuosismi anche se un po’ troppo lunga e lo abbatte. Non lo uccide però, perché l’amata Marie non avrebbe voluto. Rende quindi una penosa confessione alla figlia della coppia assassinata quindici anni prima. Non è ben chiaro se per la ragazza la cosa basti. Di certo non alleggerisce la coscienza a Bourne che si ritrova inseguito da tutti in Russia.
Deciso a scoprire realmente la verità sul suo passato lo vediamo in America, appostato di fronte all’ufficio della Landy che gli rivela il suo vero nome: David Webb. Lo spettatore ancora non lo sa ma si tratta di un balzo in avanti. Le connessioni si faranno più chiare nel terzo capitolo della saga: The Bourne Ultimatum.
In definitiva un ottimo esempio di spionaggio cinematografico anni 2000 anche se salti e iperboli non sono relegati alla sola azione ma presentano per un pubblico non edotto qualche ostacolo alla comprensione. Quasi che la regola per questo genere di film sia diventata la complicazione dell’intreccio spinto alle massime conseguenze.
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