Il Jason Bourne degli anni 2000 ha, apparentemente, poco a che spartire con quello delle origini. Il film The Bourne Identity (2002) diretto da Doug Liman e sceneggiato da Tony Gilroy (grande fan del lavoro letterario di Robert Ludlum) e William Blake Herron deve tener conto di una serie di mutamenti avvenuti non solo nella società ma anche nel cinema d’azione.
Dal romanzo Un nome senza volto e dalla sua riduzione televisiva degli anni ’80, Identità bruciata, è veramente trascorso molto tempo. La Guerra fredda è finita, il terrorismo inteso com’era negli anni di piombo è un ricordo e la stessa leggenda di Carlos è sfumata con la cattura del “vero” terrorista e la rivelazione di quanto poco ci fosse di “superoistico” nel personaggio. Non solo. Se, grazie al cinema di Hong Kong in tutti gli anni ’90 l’azione ha acquisito ritmi e modalità più spettacolari, tagli frenetici, ispirazioni da videoclip musicale, questo filone cinematografico si è sempre più avviato a essere uno spettacolo per adolescenti. In pratica per un pubblico “altro” da quello che seguiva e continua a seguire i romanzi di Ludlum (originali e apocrifi).
Poi, improvvisamente la correttezza politica che si concretizzava in film “baraccone” tutti battute, effetti speciali ma privi di una reale drammaticità per non parlare di violenza vera, è esplosa. L’11 settembre ha cambiato la concezione del thriller spionistico cinematografico ribaltando la situazione. Se è vero che per questo genere di pellicola il pubblico di riferimento restano i giovani e i loro gusti (da qui la necessità di scegliere visi che rispecchino la platea, almeno idealmente) l’America si toglie i guanti.
Per un brevissimo periodo dopo l’11 settembre quasi non si osava proporre film d’azione o violenti, quasi per rispetto di fronte alla tragedia delle torri gemelle. Danni collaterali e Codice Swordfish furono tra i film che più vennero danneggiati da quest’ondata di timore verso gli spettacoli definiti violenti. Una pura ipocrisia.
L’America si preparava a lanciare una serie di guerre di distruzione contro gli Stati canaglia o presunti tali senza troppe remore. Le “special renditions”, Guantanamo, gli scontri in diretta alla CNN, le bombe intelligenti che finivano sulle scuole, il Patriot Act che rappresenta una gravissima violazione dei diritti civili (almeno in un Paese che si definisce democrazia) sono la dimostrazione della carica di violenza e desiderio di rivalsa che ardeva nel popolo americano. Tolto il lutto si ricomincia a sparare. E questa volta il cinema d’azione lo fa con ferocia, curiosamente legittimato dall’idea che contro un nemico vigliacco sia lecito tutto. Persino James Bond, incollato alle sue inossidabili formule di spettacolo d’azione per tutti, alla fine dovrà fare i conti con questa nova visione del genere. Anzi si può dire che il nuovo Bond (quello con Daniel Craig) nasce visualmente e concettualmente proprio da The Bourne Identity.
Il film, in realtà era stato concepito prima dell’11 settembre, e alla sua ideazione partecipò lo stesso Ludlum che infatti figura anche nei credits non solo come autore del romanzo ispiratore. Purtroppo non vide mai il film finito; credo comunque che ne sarebbe rimasto soddisfatto.
L’idea di base resta. A poche miglia dalla costa mediterranea, Jason Bourne finisce in mare con due pallottole in corpo. Salvato da un gruppo di pescatori italiani (tra i quali riconosciamo il grande Orso Maria Guerrini) non ricorda più nulla di ciò che gli è capitato recentemente. Di sicuro parla molte lingue, sa come smontare una pistola e fare a cazzotti, e proprio non capisce cosa siano i dati bancari che ha inseriti in una pellicola sottopelle. Disperato parte alla ricerca della verità. Destinazione Svizzera.
Da questo punto in poi la trama originale è presente solo per accenni, allusioni. Ci sono Abbot e Concklin ma in ruoli differenti. Treadstone 71 si trasferisce a Parigi e diventa un “programma” della CIA concepito non per colpire un fantomatico terrorista ma per fini oscuri e giochi di potere interni alla CIA. Altro particolare difforme dall’originale e importante nella creazione della mitologia del nuovo Bourne. Jason Bourne si chiama veramente David Webb ma non è un professore e non ha perso la famiglia in Vietnam. È un reduce delle guerre mediorientali che si è sottoposto volontariamente a un programma di addestramento (del quale non è l’unico agente) per diventare un “asset”, una risorsa. In pratica un killer che, complici un condizionamento inumano e molte pastiglie, diventa una macchina. Nel primo film ancora non arriva a uccidere su commissione (lo scopriremo nel secondo) perché l’impatto sul pubblico poteva essere negativo.
L’operazione andata in fumo che ne ha causato la perdita di memoria è proprio un sussulto di coscienza emerso prima di premere il grilletto. Il corrotto politico africano verrà poi ucciso da un altro assett (Clive Owen) con lo scopo secondario di attribuirgli la colpa. Ma il vero dramma di Bourne è quello del rimescolamento delle sue coscienze.
Il killer di oggi, dopo il trauma, comincia a ribellarsi per lasciar emergere lentamente, molto lentamente, il soldato Webb di un tempo. Un giovane con il viso aperto di Matt Damon, a mio avviso poco adatto al personaggio del romanzo, ma perfettamente rispondente alle esigenze di casting dell’epoca. E così Marie St. Jacques che nello sceneggiato (e nel romanzo) era una donna giovane ma “borghese” diventa Franka Potente (attrice tedesca reduce dal successo di Lola Corre), ragazza “perduta” anche se dal cuore d’oro. Bourne la incontra al consolato americano mentre litiga per avere un visto da studentessa per poter entrare negli USA chiaramente di straforo, e se ne serve per coprire la sua fuga. Nel corso di questa, Marie Kreuz (questo il nuovo nome) rivelerà i tratti migliori del suo carattere ma attraverso atteggiamenti e dialoghi disegnerà un personaggio femminile differente da quello che ci potremmo aspettare in una spy story. Ha gestito un sex shop, non vede la famiglia, ha intessuto una serie di intrallazzi amorosi uno più bislacco di altri.
All’amico Eamon che se la ritrova nella casa di campagna con lo scomodo ospite dice «io complico sempre le cose» quando lui le chiede se «è quello giusto». La sequenza finisce con la totale distruzione della villa e un duello a sangue freddo tra Bourne e l’assett inviato per ucciderlo.
Non è la prima volta che Bourne scopre “per istinto” di sapersi battere senza pensare, nel modo più micidiale. A Parigi ha affrontato in una magnifica sequenza corpo a corpo un altro killer della Treadstone. Non siamo ancora alle iperboli di Greengrass, ma è sufficiente analizzare la sequenza per renderci conto di quanto sia cambiato il cinema d’azione.
Prima di tutto diciamo che Jeff Imada, lo stunt choreographer della serie, viene da una lunga esperienza hollywoodiana che lo ha visto a fianco di Seagal e di altri eroi del decennio precedente. È stato anche in contatto con la “family” del JKD guidata da Dan Inosanto e Richard Bustillo che hanno addestrato forze speciali e di polizia americane da diversi decenni. Il suo mestiere lo conosce.
Il duello nella casa parigina tra Bourne e il killer è innovativo, violento, sporco e realistico. Non c’è spazio per la spettacolarità alla Van Damme. Il tono è assolutamente realistico, una rissa con colpi corti e sporchi ispirata agli stili filippini, al close combat delle truppe speciali e al Krav Maga israeliano. Eppure è reso in maniera così dinamica da diventare uno spettacolo. Uno spettacolo che ha nella sua brutalità il punto di forza.
Vogliamo vedere Bourne con il viso preoccupato, tormentato dal disagio, umano nelle scene di introspezione. Ma quando si spara si spara, non si parla, come diceva un saggio. Jason Bourne è stato addestrato per essere una macchina di distruzione e si batte con avversari altrettanto pericolosi. Sarebbe un controsenso che ne uscisse con battute o buoni sentimenti. La lotta, il combattimento sono qualcosa che devono lasciargli addosso i segni, il sangue, i lividi. Fuori e dentro. E intanto si delinea intorno a lui una più ampia ragnatela che si dipanerà soprattutto nei film successivi.
Nella CIA il marcio si accumula. Abbott e Concklin sono solo due mele marce divise tra la realizzazione di folli progetti di supremazia e la necessità di “pararsi il culo” come si dice. La maggior preoccupazione è non essere silurati dalle alte sfere. Alla fine ingaggiano una guerra personale contro Bourne ma anche contro loro stessi. Nessuna ideologia, nessun partito, nessun onore. Così il finale spostato a Parigi rispetto all’originale è una sanguinosa resa dei conti dove non importa “quasi” più eliminare Bourne. Ne emerge allora un’altra figura, nuova nello script, che troveremo poi nelle puntate successive. Nicolette “Nicki” interpretata da Julia Stiles, faccino interessante anche se troppo paffuto per diventare una star. In questo primo episodio è l’addetta alla logistica della Treadstone di Parigi, una versione di Moneypenny formato Bourne. La rivedremo comunque perché nella serie sono lasciati in sospeso fili e tempi narrativi, così come se già alla realizzazione del primo episodio già si presagisse che, dieci anni dopo, ci sarebbe stato un reboot senza Damon.
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