L’imperscrutabile modello degli autentici funzionari dell’intelligence è George Smiley, protagonista dei primi romanzi di John le Carré. Grigio, pochissimo appariscente, custode indefesso della sua vita privata, nella quale soffre i tradimenti della moglie, molto più giovane di lui.
Ma nell’era di Internet, la privacy scompare anche ai vertici del MI6, il servizio segreto inglese con competenza estera. Lo ha scoperto Sir John Sawers, quando assurse al ruolo di “C”, sigla che designa il capo dell’organismo dai tempi del suo fondatore, il capitano Mansfield Cumming. Nel 2008, l’anno in cui l’MI6 festeggiava il centenario, la consorte del neodirettore, Shelley Sawers, mise sulla propria pagina di Facebook tutti i dati familiari. Lo ha scoperto l’incredula redazione del quotidiano londinese “Mail”. Allertato il Foreign Office, da cui dipende l’MI6, le notizie messe in piazza elettronicamente dalla signora sono state oscurate.
L’episodio seguiva di qualche mese quanto accadde al capo dell’antiterrorismo di Scotland Yard. L’Assistant Commissioner Bob Quick scese incautamente dall’auto al numero 10 di Dowing Street, residenza del Primo Ministro, senza coprire l’intestazione “Top Secret” del documento iniziale di una pratica che si riferiva a un’importante retata da condurre nella porzione nordoccidentale del Paese. Le sensibilissime fotocamere degli operatori catturarono così materiale non destinato alla divulgazione preventiva. I 12 arresti programmati dovettero venire anticipati. Si trattava di pakistani sospettati di legami con Al Qaeda. Quick, però, rassegnò le dimissioni dalla carica, affermando: «Mi dispiace profondamente per il danno causato ai colleghi impegnati nell’operazione».
Il passo indietro dell’Assistant Commissioner addolorò il Sindaco di Londra, Boris Johnson. Quanto al ministro dell’Interno, Jacqui Smith, asserì che anche se l’operazione era stata condotta con successo, il capo dell’antiterrorismo aveva ritenuto che la sua posizione fosse divenuta indifendibile. Per indorare la pillola, il titolare dell’Home Office esprimeva apprezzamento per la mole di lavoro svolta da Quick durante il suo incarico.
Non sono rari gli esempi del binomio “spie & pasticci”. Perdere un computer portatile Latitude, che costa più di 1.700 di per sé e chissà quanto per le informazioni inserite, trasforma il Grande Gioco in una farsa. È ormai leggenda della cronaca l’incredibile atto di smemoratezza che portò un uomo del Ministero della Difesa britannico a perdere su un taxi preso alla Waterloo Station e abbandonato nella zona di Roehampton l’inestimabile pezzo di archivio segreto da portarsi comodamente a casa per proseguire il lavoro d’ufficio. Col risultato di scatenare una caccia nella quale fu mobilitato, oltre a Scotland Yard, ancora un quotidiano, il “Daily Mirror”, che già una volta aveva restituito un reperto analogo ai servizi segreti di Sua Maestà. Emergeva anche un dato che ha dello straordinario: dal 1997 si erano verificati 204 smarrimenti o furti di computer dell’intelligence.
Peter Wright, l’ex esperto di intercettazioni del MI5, il controspionaggio inglese, scrisse nel 1987 un celeberrimo volume di memorie, Spycatcher, cacciatore di spie, nel quale insisteva ripetutamente sulla chiave del problema: «La mentalità dei “vecchi compagni di scuola” dei servizi segreti inglesi». Ovvero la tendenza a reclutare solo e soltanto all’interno dell’aristocrazia, dove alligna la noia e un senso malinteso del dovere che demotivano gli operatori sul campo. Fu questa, secondo Wright, la causa degli svarioni allucinanti che consentirono negli anni ’50 le fughe a Mosca di Burgess e McLean, e poi, nel 1963 a Beirut, quella di Kim Philby, il traditore del secolo.
In tutti e tre i casi, si trattava di individui ormai individuati e smascherati quali doppiogiochisti a favore di Mosca. Provenienti dall’élite universitaria di Cambridge e formatisi con le idee rivoluzionarie degli anni ’30, allorquando schiere di giovani inglesi vissero una specie di ’68 ante litteram. Ebbene, le squadre di sorveglianza sottovalutarono le risorse dei loro bersagli soprattutto a causa di uno spirito di corpo dovuto alla comune estrazione sociale, che sfociava in una pericolosa indulgenza, quando non lassismo. Sta di fatto che Burgess, McLean e Philby ripararono tranquillamente in URSS.
Gli Stati Uniti ebbero la loro quota di pasticci, fra i quali il caso di Aldrich Ames. Un oscuro dipendente della CIA che per anni trafugò segreti dall’altra parte della barricata. Perfino dopo la fine della Guerra Fredda, quando forse vennero meno le ragioni del confronto ideologico, ma permanevano, e permangono, ben solide quelle della competizione geopolitica, strategica e tecnologica. Un uomo che viveva da tempo al di sopra delle sue possibilità, senza che a Langley, sede centrale della CIA nei boschi della Virginia, vicino Washington, sorgessero sospetti sulle discrepanze fra la busta paga dell’intelligence e lo scialo da ricco epulone. Per non dire dei Marines abbindolati da fascinose ragazze dell’est per carpire tutto quanto osservavano nelle ambasciate degli Stati Uniti al di là della Cortina di Ferro e nell’ultimo baluardo “rosso”, la Cina.
Un male che veniva, per gli americani, dai tempi in cui James Jesus Angleton dirigeva il controspionaggio. All’epoca, fine anni ’50, inizio ’60, l’Occidente era invaso da disertori dell’URSS, ognuno dei quali smentiva l’altro, pur concordando tutti su una sgradevole verità per questo lato della barricata: il cosiddetto Mondo Libero era infestato di talpe moscovite. Di più, ai massimi livelli operavano agenti di Mosca. Il risultato fu un uragano senza fine di paranoia che tolse a chiunque la fiducia nei colleghi, da qui l’espressione poi divenuta un classico per definire l’ambiente delle spie: foresta di specchi.
Parimenti, non sempre il cinema e la narrativa esaltano la professione dell’agente segreto. A volte la demistificano. Ed ecco Harry Palmer, interpretato sullo schermo da Michael Caine, che portava gli occhiali, si cucinava da solo a casa e prendeva di continuo abbagli nel corso delle avventure, pur cavandosela nel finale. Le sue avventure erano tratte dai romanzi di Len Deighton, definito l’anti-Fleming per il disincanto delle sue trame, nelle quali non esistevano eroi ma soltanto burocrati che tiravano a campare.
Più macchiettistico il nostrano James Tont, alias Lando Buzzanca, che all’Aston Martin preferiva una Fiat 500 superaccessoriata.
Modelli comici che derivano tutti da Wormold, un rappresentante di aspirapolvere che accettava di passare informazioni da Cuba al MI6 con il numero 59200/5. Gli servivano soldi per pagare gli studi della figlia, invece rischiava di far scoppiare una crisi internazionale. È la trama de Il nostro agente all’Avana (Our Man in Havana, 1958 - i Romanzi della Medusa n. 429, Mondadori 1959), di Graham Greene. La galleria di personaggi del libro e del film resta esemplare per la vena sarcastica con la quale si raffigura il mondo dei servizi segreti.
Fa lo stesso Robert Sheckley in L’agente X (The Game of X, 1965 - I Rapidi n. 4, Mondadori 1966), romanzo esilarante sull’innocuo P. Nye, perdigiorno americano a Parigi, che viene ingaggiato da un dipartimento segreto del governo americano per favorire la fuga di una spia sovietica in occidente. L’impresa riesce proprio per il dilettantismo di Nye.
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