Robert Ludlum (1927-2001) è uno di quei narratori di spy stories che difficilmente rientrano in una catalogazione precisa. Comincia a lavorare in radio sino alla fine degli anni ’60, poi apre un teatro che, complice la televisione, riscuote poca fortuna e, nel giro di un anno, fallisce.
Da sempre amante delle storie d’intrigo comincia a buttare giù un romanzo (The Scarlatti Inheritance, L’eredità Scarlatti) facendosi l’idea che quella sarà la sua attività per il resto dell’esistenza. Qualche dubbio sua moglie ce l’ha ma alcune salde amicizie nel campo delle agenzie editoriali gli consentono di vendere il romanzo che viene pubblicato con un discreto riscontro nel 1971. Da quel momento inizia la carriera di Ludlum narratore, che non si definì mai esattamente uno scrittore di spionaggio.
La consacrazione venne però all’inizio degli anni Ottanta con The Bourne Identity tradotto da noi come Un nome senza volto. Una trovata geniale basata su un archetipo del genere... l’uomo senza memoria al centro di una macchinazione mortale che lo unisce a una donna appassionata e gli rivela il suo passato gradualmente, liberandolo dall’ossessione di essere un mostro. Anzi, è lui a uccidere il mostro. Una trama impeccabile, con tutti gli elementi al posto giusto e, per di più, con un accenno di grande richiamo per l’epoca, in seguito perduto perché superato dalle cronache.
Di certo in un’era in cui gli “anni di piombo” erano per tutto il mondo dolorosamente presenti il riferimento a Ilich Ramírez Sánchez, detto Carlos lo Sciacallo, terrorista imprendibile e internazionale, era un asso vincente. Carlos, come la storia ha dimostrato, era ben lungi dall’essere il “Napoleone del terrorismo” con cui lo si è voluto più volte definire.
In quegli anni, però, creò la leggenda del terrorista professionale, in realtà non legato a un’ideologia se non alla propria folle filosofia di distruzione. Non un bombarolo qualunque ma un “contro-agente” addestrato, seguito da un’orda di fanatici, legato ai servizi dell’Est, ai movimenti rivoluzionari sudamericani, ai fanatici islamisti senza però essere realmente servo di nessuno. Un incubo per i servizi segreti occidentali. Questa la leggenda che nei decenni successivi finirà per cedere, tassello dopo tassello, sino alla cattura e alla scomparsa dalle cronache.
Ma Carlos lo Sciacallo ideato da Ludlum ha solo il nome in comune con l’inafferrabile Primula Rossa del terrorismo. È un super killer, di politica non parla, e costruisce il suo Impero del Male attraverso una rete di complici lontani da ogni ideologia politica. Forse per questo diventa un cattivo così convincente, perché non tocca alcun credo politico. È un villain e basta. La sua organizzazione manipola vecchi generali, funzionari CIA corrotti, banchieri, si serve di altolocate sgualdrine, di creatrici di moda parigine, di banchieri e disgraziati di vario ceto, dai locandieri sino ai “ciechi” (che ciechi non sono) disseminati ovunque. Gente che può sbucare all’angolo di un paesello sperduto tra i Pirenei o in un grand hotel parigino, soldati reclutati tra assassini delle truppe speciali e cortigiane da palazzo. Si traveste persino da frate.
Alla fine è come Fantomas, il Genio del Male. Ed è per eliminare lui che David Webb, professore universitario ma reduce del Vietnam vedovo di moglie e figlio, diventa Jason Bourne, reale assassino proveniente dall’operazione Medusa, rivale asiatico di Carlos ma incontrollabile. Un doppio inganno che, complice una pallottola alla tempia (lo stesso genere di ferita incapacitante, ma non mortale, subita innumerevoli volte da Tex e i suoi pard e da mille altri eroi) perde la memoria e si risveglia con un microfilm inserito nella pelle e il desiderio di sapere chi è veramente.
Il romanzo fu un vero jackpot e, benché negli anni successivi Ludlum abbia sfornato altrettanti capolavori come Il circolo matarese (The Matarese Circle, 1979) e Il mosaico di Parsifal (The Parsifal Mosaic, 1982), divenne giocoforza scriverne dei (non perfettamente riusciti) seguiti.
Io lo lessi in vacanza, in un tascabile inglese, diversi anni dopo e ne rimasi realmente colpito. M’intrigava, mi prendeva, aveva tutto quello che mi piaceva e anche quello che mancava ai miei autori di riferimento che poi erano Ian Fleming e il gruppo di autori di Segretissimo. Credo che l’aspetto che più mi piacque (e ritengo la formula vincente dei suoi romanzi) fu proprio la capacità di scrivere spionaggio avventuroso con un respiro complesso tutto giocato sul sottile filo della paranoia.
La teoria del complotto (che poi è diventata un refrain di tutto il filone) veniva a inserirsi con dieci anni d’anticipo sulla fine della Guerra fredda. Attingeva piuttosto a quell’immaginario che dava corpo a film come Perché un assassinio? (The Parallax View, 1974), I tre giorni del Condor (Three Days of the Condor, 1975), Il principio del domino (The Domino Principle, 1977), che comunque avevano tutti radici letterarie. La CIA dentro la CIA, il potere per il potere. Un concetto che non era estraneo né alla realtà, né allo spionaggio letterario. Qui però approdava a una narrazione larger than life, appassionante. In breve la mia formazione di narratore di spionaggio si arricchì di altri temi e altre suggestioni.
Senza rinunciare a quelli che erano i miei modelli, cominciai a vedere strade notturne piene di ombre, sicari che uscivano da ogni dove, tradimenti, contro-tradimenti, manovratori occulti. E più il quadro era complesso più il gioco diventava interessante, purché alla fine restasse sempre un filo da seguire e tirare per far quadrare tutto. Più di Frederick Forsyth, più di Ken Follett, decisamente più di Len Deighton e John le Carré, Ludlum ha influenzato il mio modo di creare la spy story sino a tempi recentissimi.
Il secondo episodio del Professionista, L’eredità Cargese (Segretissimo n. 1289), è un dichiarato omaggio al primo romanzo di Ludlum, ma altri riferimenti si trovano disseminati nell’intera serie. E non solo ai romanzi più fortunati. Striscia di cuoio (The Osterman Weekend, 1972) fu portato al cinema da Sam Peckinpah che ne fece forse un film minore (Osterman Weekend, 1983) perché lo spionaggio non era realmente il suo pane, ma che, in alcune inquadrature soprattutto (i filmati dei protagonisti spiati in ogni dove dal malefico Omega, la scena iniziale con l’omicidio della moglie di Hurt con l’iniezione di veleno nel naso) mi sono rimasti impressi sino a oggi.
Anche se, purtroppo, nel corso degli anni i romanzi di Ludlum divennero sempre più contorti, forse non sempre tradotti al massimo della qualità. Più difficili da seguire sino a quel Il grido degli Halidon che fu pubblicato quasi postumo ma era una riscrittura di un vecchissimo manoscritto.
Poi avvenne una sorta di magia. Ludlum ci lascia nel 2001 e, da quell’anno, cominciano a uscire una serie di romanzi che ufficialmente erano già scritti e non pubblicati e addirittura comincia una nuova serie (Covert One) della quale, forse, l’autore aveva tracciato le direttive. Lo stile narrativo cambia, gli intrecci ritornano potenti, avvincenti. Siano storie di spionaggio ambientate durante la Seconda guerra mondiale (The Tristan Betrayal, Complotto) o ai giorni nostri (The Janson Detective, La direttiva) restituivano al pubblico di Ludlum tutto il piacere di quel genere.
Il franchising regge e Tony Gilroy, poco prima della morte di Ludlum, mette a segno un colpo vincente sceneggiando una versione nuova di The Bourne Identity (che aveva avuto una sua dignitossissima serie TV di cui parleremo) diretto poi da Doug Liman. Di fatto il Bourne di Matt Damon è moderno, ha riferimenti all’originale disseminati con cura ed evidenti forse solo per i fan più affezionati, ma, soprattutto, ridefinisce il cinema di spionaggio d’azione del dopo 11 settembre. Lo stesso Bond non potrà resistere più di tanto e il suo reboot con Craig sarà debitore per situazioni ma soprattutto per impianto visivo ai film realizzati negli anni Duemila. In particolare quelli di Paul Greengrass, adrenalinici, moderni, cupi e privi di qualsiasi ironia vecchio stile.
Nel frattempo mentre le partecipazioni di noti autori del filone (ricordo tra tutti Gayle Lynds, una delle più brave autrici del filone - Masquerade, 1996) Eric Van Lustbader, vecchio amico di Ludlum, a sua volta una leggenda degli anni ’80 (la serie Ninja ma non solo) recupera il suo ruolo di narratore di spionaggio che già con Miko e Quattro pezzi di Giada, aveva dato prova di essere con qualcosa in più. Un altro dei miei modelli dell’epoca della formazione...
Il suo ciclo di Bourne non ha nulla a che fare con quello cinematografico e forse è meglio così. Lustbader imbastisce una saga sua che prosegue con successo da anni, forse un po’ troppo complicata negli ultimi episodi ma sempre efficace. Si alterna ai romanzi di Covert One e a quelli singoli ormai scopertamente narrati da altri autori che si avvalgono del brand “Robert Ludlum”.
Al cinema, esaurita la prima trilogia arriva un The Bourne Legacy che è distinto dal romanzo di Lustbader e porta in scena un nuovo eroe, con il viso di Jeremy Renner. Insomma quello di Ludlum è un universo narrativo e cinematografico variegato, innovativo, appassionante, che val la pena di esaminare.
Lo faremo partendo proprio dal cinema, dalla televisione, senza mai dimenticare che proprio Un nome senza volto ha ispirato (pur distaccandosene completamente) una delle più fortunate saghe a fumetti (divenuta poi anche televisiva) degli ultimi decenni, quel XIII di Jan Van Hamme che, guardacaso è uno dei miei livres de chevet irrinunciabili.
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