La ragazza disegnò nel vuoto un asterisco scintillante. Non udiva che il sibilo delle due lame. Provò una fitta di dolore bruciante al bicipite sinistro. La wakizashi l’aveva lambita attraverso la pelle della giacca. Lo yakuza emise un grido di vittoria, già certo di averla in pugno. Con un movimento sinuoso Mimy tagliò muscoli, tendini e arterie prima sul braccio armato del giapponese, poi scese sulla coscia. L’uomo arretrò stordito dallo shock provocato dall’improvvisa perdita di sangue.

Fu in quel momento che Mimy ruotò su se stessa allargando la sua favolosa capigliatura come un ventaglio di seta. Eseguì il calcio circolare all’indietro sollevandosi di qualche centimetro appena dal terreno ma concentrando tutta la potenza del colpo nel tacco dello scarponcino, che si schiantò sul collo dello yakuza con un rumore di legno spezzato. L’uomo lasciò la spada rotolando sul pavimento esanime.

Mimy non si fermò neppure a controllare il risultato della sua azione. Ruotò sul pavimento rimettendosi in ginocchio. Doveva ricaricare la Beretta, un’operazione eseguita migliaia di volte durante l’addestramento. Per farlo era costretta a lasciare il pugnale. Non trovò di meglio che infilarlo tra i denti; la mano libera corse ai caricatori. Inserì il parallelepipedo di plastica nel calcio spingendo il primo colpo in canna con un movimento fluido.

Nulla. Davanti ai suoi occhi c’erano solo rottami e corpi dilaniati dai proiettili. Dalla consolle provenivano ronzii indistinti. Qualcuno gemeva. Macchie di sangue dappertutto. L’aria era satura del fumo azzurro degli spari. Inutilmente Mimy cercò Saburo e la gaijin. Scomparsi, e con loro il gigante giapponese. Dove lo aveva già visto, quel mostro? La sua mente si rifiutava di rispondere.

Ansante, si alzò dalla posizione accosciata attraversando con passi lenti quella scena, degna di un quadro di Hieronymus Bosch. In qualche modo Saburo Hida e la sua protettrice erano riusciti a sfuggire all’agguato. Individuò una traccia traforata dai proiettili dello SPAS vicino a una porta sul lato opposto della sala rispetto a quello da cui era penetrato il gigante. Dovevano essere scappati di là. Il mostro mascherato li aveva inseguiti, forse.

Fischi, esclamazioni concitate. Mimy si volse stancamente. La polizia. Rinfoderò il pugnale e la Beretta mostrando il tesserino a un poliziotto occhialuto che le puntava addosso una piccola pistola con aria stolida.

- Khoan, squadra antiterrorismo - disse ruvidamente cercando i suoi colleghi.

Ninja, Samurai e Ronin stavano arrivando in quel momento dalla rampa. Trafelati e spaventatissimi. Non c’era da nutrire molti dubbi su chi avrebbe dovuto sopportare la sfuriata dell’ispettore Ishi.

- Dove cazzo eravate finiti, maledizione? - li apostrofò con rabbia Mimy.

Il viso piatto di Ninja ammiccò in cerca di una giustificazione. - Ma... Kunoichi, sono passati solo due minuti da quando hai chiamato. Non sentivamo più nulla e... Lei lo liquidò con un gesto della mano. - Fottetevi.

- L’ispettore Ishi...

- Si fotta anche lui - soggiunse la nippocoreana appoggiandosi al bancone del bar. Si protese per afferrare una bottiglia di vodka rimasta miracolosamente illesa. Svitò il tappo ingollando una lunga sorsata. Con l’adrenalina ancora in circolo non le faceva quasi effetto.

- Male bere in servizio, Kunoichi... che dirà il Daimyo?

Mimy socchiuse per un attimo le palpebre come per autoescludersi dal mondo esterno, poi si volse verso il nuovo venuto. Una voce conosciuta, amica.

- Vuoi favorire? - chiese al giapponese dal viso severo. - Offre la casa.

L’ispettore Takeshi Kitano, capo della squadra speciale della polizia di Tokyo, distese il volto in un sorriso accennando un gesto di comprensione. Afferrò la bottiglia e bevve una sorsata. - Sarà una lunga notte, Kunoichi.

© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano