Stava a uno dei tavoli tondi ai bordi della pista da ballo, circondato da uno stuolo di ragazze kampai che se lo mangiavano non solo con gli occhi. Era alto più di un metro e novanta, elegante, con un bel viso volitivo che la capigliatura bionda rendeva particolarmente attraente per le piccole giapponesi. Eppure anche su quel volto Mimy riuscì a rintracciare i segni distintivi di un’esistenza consumata in clandestinità, a continuo contatto con il pericolo, a flirtare con la morte. Un dettaglio curioso rendeva quel viso unico anche in un mondo dove i gaijin sembravano tutti uguali. Sotto l’occhio destro aveva una piccola lacrima nera tatuata. Quel segno pareva un anacronismo su un viso così arrogante, da vincente, come se una maschera di Pierrot fosse venuta a sovrapporsi al volto di un guerriero vichingo, creando un miscuglio tra sentimento e durezza che Mimy trovò affascinante. L’uomo, tuttavia, non aveva occhi per lei e tantomeno per le ragazze che sembrava palpeggiare più per copertura che per piacere. La fronte alta era corrugata, le sopracciglia arcuate come se stesse tentando di concentrare lo sguardo verso un punto preciso.
Saburo e la misteriosa valchiria bionda.
Con un brivido di eccitazione Mimy registrò l’informazione che i suoi occhi le inviavano cercando immediatamente di trovare una connessione. Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare di aver mai visto il viso di quello straniero su qualche scheda segnaletica.
Poteva essere una guardia del corpo della gaijin?
Dal suo atteggiamento non sembrava, era più probabile che la stesse spiando. Proprio come lei.
Mentre si avviava tra la folla, incrociò per un attimo lo sguardo dello sconosciuto. L’uomo ebbe un rapido trasalimento, come se il sesto senso di chi vive nell’ombra gli avesse comunicato la medesima sensazione che lei aveva provato pochi attimi prima. Persino in quella bolgia infernale riuscivano a riconoscersi come appartenenti allo stesso mondo.
Senza sapere bene la ragione che la spingeva a farlo, Mimy azionò nuovamente la microcamera nascosta negli occhiali, scattando rapidamente alcune istantanee dell’occidentale.
Peter Handerof si sentì sfiorato dagli occhi della statuaria orientale all’altro capo della pista come da un alito di fuoco. Respinse con un gesto annoiato una delle ragazze kampai che gli passava la lingua sul collo emettendo miagolii assolutamente idioti e distolse per un attimo gli occhi da Saburo Hida. Per la prima volta da quando era giunto in Giappone riusciva a trovare una donna di suo gradimento. Detestava le ragazze locali, con le gambe storte e i seni troppo piccoli. La giovane che lo stava osservando, invece, aveva qualcosa di speciale, e non solo nell’abbigliamento scelto per enfatizzare le doti fisiche che la natura aveva voluto concederle, probabilmente privando le sue compatriote di molti dei doni che rendono attraente una donna per riunirli tutti assieme.
Forse non era completamente giapponese, si disse.
Era chiaro che lo aveva notato. Peccato: in un’altra occasione avrebbero potuto cercare di approfondire quell’estemporaneo contatto visivo, ma quella notte le donne erano solo un espediente mimetico, per Peter Handerof. Era a Tokyo per una ragione più importante. Seguire l’unica traccia che avrebbe permesso a lui e al suo amico Chance Renard di riscattarsi agli occhi della Legione Straniera.
Quel pensiero gli suscitò una reazione di struggimento e rabbia al tempo stesso. Chissà come se la stava cavando Chance in quel momento. Di certo Peter preferiva trovarsi qui, in un paese straniero, ostile, piuttosto che fronteggiare la commissione d’inchiesta che stava torchiando Chance. Riportando gli occhi su Saburo Hida e la sua biondissima ospite, si disse, comprendendo appieno il significato di quell’asserzione per la prima volta, che tutte le loro speranze erano riposte in lui.
Rompendo ogni indugio decise di avvicinarsi. Prese per un braccio una delle ragazze fingendo di volerla portare alla pista da ballo.
Una delle tecniche basilari che Mimy aveva appreso alla scuola superiore di spionaggio di Sapporo, nell’Hokkaido, era quella di farsi sempre un quadro completo della zona d’azione. Era necessario, come diceva il suo maestro, “avere mille occhi, uno per ogni ombra della notte”. Sebbene l’illuminazione del Kaishaku fosse abbacinante, di ombre, quella notte, ce n’erano sin troppe. Avanzavano velocemente con un obiettivo preciso, procedendo con un’azione combinata da vettori differenti.
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