Mimy scandagliò la sala attraverso le lenti avvolgenti brunite che le dividevano il viso in due sezioni orizzontali creando l’impressione che fosse composto da due entità distinte: una sensuale, dominata dalla bella bocca carnosa, e una più fredda e razionale che un’unica ruga di espressione solcava da parte a parte. Portare gli occhiali scuri era una copertura perfettamente plausibile, visto che la moda locale imponeva lenti specchiate anche di sera. All’interno del Kaishaku, comunque, l’illuminazione era tale che Mimy riusciva a vedere quasi come durante il giorno. Gli occhiali erano poi dotati di alcuni optional decisamente introvabili in un semplice negozio di ottica. La lente destra, per esempio, era collegata a un meccanismo che si azionava con una semplice pressione sul bordo esterno della montatura e permetteva di scattare in rapida successione una serie di fotogrammi immediatamente registrati in un chip nascosto nel ponte. La lente sinistra, con un identico meccanismo, permetteva di ottenere una visione a infrarossi quando le condizioni di luce erano scarse. Ma il vero gioiello era il trasmettitore incorporato nell’asticella e nascosto dai capelli.

- Sono sul posto. Comincio la ricognizione - sussurrò Mimy, sapendo di non aver bisogno che di un filo di voce per essere udita dal ricevitore in ascolto all’esterno, sulla strada.

- Sii prudente, lo sai che non è un’indagine autorizzata - replicò una voce con l’intonazione secca e vagamente irritata tipica dei giapponesi quando hanno a che fare con una donna.

- Lo so - rispose cupa la nippocoreana avviandosi verso la pedana circolare del bar.

Lampi di luce, figure in frenetico movimento sulla pista da ballo, occhi sbarrati dall’anfetamina. Conscia di essere seguita dagli sguardi lubrichi di un gruppo di uomini soli a un tavolo ai limiti della pista, Mimy Oshima attraversò lo spazio tra gli ascensori e il banco come scivolando su un nastro di velluto. Andò ad arrampicarsi su uno degli sgabelli ordinando alla barista tatuata una birra Suntory e una vodka ghiacciata. Bevve un sorso della prima ingollando di colpo la seconda. Quando la frusta di fuoco liquido le accarezzò la laringe, azzardò uno sguardo verso i tavoli che circondavano la zona destinata al ballo. Di nuovo una confusione di corpi sudati, allacciati l’uno all’altro senza più freni inibitori. Vide la sua immagine riflessa brevemente sulla cupola di plexiglas che ospitava i deejay.

Mimy Oshima, ventisette anni. Nome in codice Kunoichi, Fiore Velenoso. Agente del Khoan, il servizio antiterrorismo giapponese. Era venuta al Kaishaku mescolandosi con la folla maleodorante e degradata del locale con uno scopo preciso. Non per stordirsi a ritmo di musica demenziale, o per bruciare le cellule cerebrali con alcol e droghe sintetiche. Né per accoppiarsi con il primo venuto. Quelle erano attività che, in altre occasioni, aveva compiuto singolarmente o tutte in una sola serata, ma al momento attuale non rivestivano per lei alcun interesse.

Mimy era venuta al Kaishaku per cercare un uomo.

Dopo una rapida carrellata lungo la fila di tavoli disposti a losanga per ricordare il mon di un clan samurai, riuscì a individuarlo, circondato dalle sue guardie del corpo con le loro divise immacolate, incongrue in quel locale. Ma la stessa presenza di quell’uomo al Kaishaku era incongrua. Saburo Hida. L’Illuminato. Signore e Maestro della setta religiosa dell’Alba della Suprema Verità. Sospettato di aver organizzato una serie di recenti attentati con il gas cianidrico nelle metropolitane di Tokyo, Yokohama e Osaka.

- Kunoichi a Ninja. Contatto stabilito. Il Maestro è qui.

- Ninja a Kunoichi. Mantieni il contatto visivo ma non avvicinarti. Ricordati che il Daimyo non ha autorizzato...

- Lo hai già detto, Ninja, cominci a ripeterti.

- È solo perché...

Una delle comodità tecnologiche fornite dal moderno impianto di comunicazione incorporato negli occhiali di Mimy era quella di poter regolare il volume a piacimento. Con un gesto apparentemente naturale per ravvivare la chioma, la nippocoreana spense l’apparecchio cancellando il fastidioso ronzio del suo collega. Ninja, Samurai, Ronin, soprannomi per sardine che si atteggiavano a squali. In tutta la squadra l’unica ad avere il fegato di contraddire le direttive del Daimyo, l’ispettore generale Ishi, era lei. Una donna, e di origini coreane per di più. Come a dire il livello più basso di esistenza umana che il giapponese medio potesse arrivare a concepire. Ma lei era Kunoichi, il Fiore Velenoso. E sarebbe arrivata in fondo alla sua missione a tutti i costi.