Il ricordo ha la trasparenza dell'acqua

Domenica

Trastevere ancora sonnecchiava pigramente fra le serrande chiuse delle trattorie e le persiane accostate sulle facciate multicolori dei suoi caseggiati. Il vento lasciava sbizzarrire le sue correnti fra vicoli e selciati, mentre il traffico sul viale iniziava a rombare.

Nino Bersaglia passeggiava silenzioso, con le mani strette dietro la schiena. Strano avere il giorno di riposo la domenica, non gli capitava quasi mai. Sulle labbra aveva ancora l'ombra di un sorriso. Era stato quel tizio nerboruto travestito da centurione, sbucato all'improvviso da una viuzza, a farlo sorridere. Un po' di ferraglia gli pendeva dal gonnellino sbilenco che copriva a malapena due gambette magre infilate in una calzamaglia marroncina. Si era stiracchiato la schiena prima di salire a bordo di una vecchia cinquecento. Nell'angusto abitacolo imprecava in romanesco sistemando l'armamentario, con l'elmo che si era incastrato nel tettuccio cercando di richiudere la portiera.

Era stata una scena divertente, niente da dire. Roma, Città Eterna, ove il tempo rimbalza tra passato e futuro, scolpito negli obelischi, cesellato nelle piazze e nelle fontane, ironicamente vivo nei costumi dei commedianti da Colosseo. Il Tevere scorreva lento, mescolato ai colori di quell'alba invernale. La notte aveva piovuto parecchio, in caserma c'era quella maledetta lamiera, proprio sulla finestra della sua stanza. Lo scroscio si amplificava, diventando quasi metallico, come se minuscoli granelli d'acciaio s'infrangessero sul tetto. L'aveva detto al maresciallo Micanti più di una volta, ottenendo sempre la stessa risposta:«Bersaglia! Mica siamo sui tuoi monti, dove vive Heidi! Qui in città siamo, niente è come lassù, caro mio! Manco la pioggia, te devi abitua'!». Già, abituarsi, una parola!

Oggi, senza la sua amata uniforme, si sentiva quasi nudo. Il Carabiniere: era quello che sempre aveva voluto fare, sin da piccolo. Riusciva a sentirsi "a posto" soltanto quando quella stoffa nera gli foderava la pelle e la striscia rossa accompagnava morbida la piega del suo ginocchio. Per riuscire ad entrare nell'Arma si era scontrato un po' con tutti, in primis con suo padre. Non aveva mai capito per quale motivo nutrisse un inspiegabile, atavico odio per i Carabinieri, che chiamava "cornacchie". «Su quattordici figli, uno che vuole fare il carabiniere mi doveva capitare? Eh già! È che tu te ne stai lì nel mezzo: sei il settimo, non sei di qua, non sei di là, non sai né di carne né di pesce!», continuava a blaterare nelle sue continue scenate, prima di cacciare la testa nel piatto e infilare il cucchiaio colmo di zuppa fra i baffi ingialliti dal tabacco. Sua madre taceva. Di lei Nino rammentava le pance rotonde e la schiena piegata a lavare montagne di panni. Brevi sorrisi e lunghi silenzi sciolti nel profumo del minestrone che bolliva.

Per la miseria! Qualcuno doveva pur nascere settimo, in quella nidiata! Aveva sempre pensato Nino. Era toccato a lui, e allora? Non era stato sufficiente crescere facendo a gara con i fratelli maggiori per infilarsi i pantaloni migliori, rinunciare agli studi che amava più d'ogni cosa «perché i libri riempiono la testa di cavolate», secondo quello che era il motto di suo padre? A diciotto anni appena compiuti, si era arruolato volontario, senza più guardarsi indietro. Fino a quel momento gli era stato impedito di scegliere, ma ora si trattava della sua vita, e niente gli avrebbe fatto cambiare idea.

Dopo l'anno di ferma, il concorso per entrare nell'Arma l'aveva superato senza problemi e, dopo aver girato tre o quattro caserme, da circa tre mesi era stato assegnato alla "Tuscolana", nel cuore di Roma, con la nomina di carabiniere effettivo. L'indomani era prevista l'operazione "Cisto", che in gergo sinti significa "pulito". Un blitz presso il campo nomadi abusivo che si era allargato a macchia d'olio negli ultimi mesi, fra le mura di una vecchia fabbrica dismessa.

Nell'arco di circa tre mesi, si erano installate una trentina di roulotte, a bordo un nutrito gruppo di adulti e parecchi bambini, provenienti da diverse zone dell'area balcanica: macedoni, kosovari, montenegrini. Erano intervenute associazioni umanitarie in loro difesa, ritardando l'azione dell'Arma, poiché, dopo la chiusura del campo nomadi autorizzato, non era ancora stata trovata per loro un'adeguata sistemazione. Restava il fatto, però, che i furti erano aumentati a dismisura e l'accattonaggio davanti alle vetrine dei lussuosi negozi del centro provocava ogni settimana decine e decine di chiamate in centrale. Allo stato attuale dei fatti, non era più possibile tergiversare: così aveva detto il maresciallo, consegnando a ognuno il "programma" del blitz che si sarebbe svolto con l'intervento parallelo della Polizia Municipale.

Per Nino sarebbe stata la prima operazione importante, e ne era orgoglioso.

Si fermò a guardare il Tevere: aveva un'invernale trasparenza cristallina che cangiava nel suo lento scorrere fra le rive nude di foglie. Nella mente passò, come un lampo, l'immagine del suo torrente, lassù al paese, e la memoria lo costrinse a rivivere quello che sempre avrebbe voluto dimenticare. Lo spettacolo, nitido e vivo, di quel corpo di donna che fluttuava tra le sponde, gonfio e bianco come il latte, i capelli neri e lunghi sciolti sull'acqua, intrisi di melma e foglie. Era corso a casa a chiamare suo fratello Augusto, con i piedi che battevano veloci il sentiero e il fiato diventato così corto da farlo quasi svenire. Era la prima volta che vedeva un cadavere e fu anche la prima in cui vide arrivare i Carabinieri nel suo piccolo borgo. Erano in tre, seri e impassibili sotto le visiere scure. La poveretta era Luciana Mampreso, figlia di Meo e Lidia Tagliarin. Se n'era andata da circa sei mesi, e di lei si diceva che fosse una testa matta, che avesse qualche rotella fuori posto, una vera pena per i suoi genitori, modesti e semplici contadini.

A Nino era rimasta impressa la grande, enorme voglia di caffè che la donna aveva sul collo, simile al profilo di un volto. Nella famiglia dei Tagliarin ce l'avevano in parecchi, quasi un "marchio di fabbrica", unico ed esclusivo. Già, con quella roba stampata sulla pelle, non era possibile sbagliarsi: era proprio lei, Luciana. Le indagini non riuscirono a chiarire se si fosse trattato di suicidio o di omicidio ma, considerati i trascorsi della vittima, tutti optarono per la prima ipotesi: non poteva essere altrimenti.

Erano trascorsi oramai ben tredici anni da quel giorno, dal suo paese non aveva più avuto alcuna notizia in merito al fattaccio. Tutti, in qualche modo, l'avevano rimosso, fatta eccezione, certo, per i genitori della povera ragazza. Nino si chiese come mai, proprio in un giorno come quello, da godersi appieno, gli tornavano alla memoria quei ricordi lontani e fluttuanti, trasparenti come l'acqua.

Lunedì

La sveglia aveva suonato alle quattro. Una martellata dritta sul cervello, che l'aveva fatto balzare dal letto con la velocità di una molla. Nino indossò l'uniforme e infilò nella fondina la sua Beretta. La mano indugiò sul calcio dell'arma: non l'aveva mai usata sino ad ora e, sinceramente, sperava di poter continuare a rimandare. Puntare la canna contro un uomo e sparare non era come colpire il bersaglio colorato della sagoma alle lezioni di tiro. Finché non ti capita, non puoi sapere se avrai veramente il coraggio di farlo oppure no, di questo ne era stato sempre convinto, e se lo fai, dopo, non sei più quello di prima. Perché un evento è destinato ad albergare per sempre nella tua memoria, i suoi strascichi come ombre nere gettate sulla tua intera esistenza. Entra a far parte di te, del tuo vissuto, permea la tua personalità, logorandola e stravolgendola. Il contatto quotidiano con la parte "nera" dell'umanità, in genere, non può non rimanere senza conseguenze: la mente, per autodifesa, colpita da tante immagini di violenza, diventa via via più insensibile, cinica, fredda, quasi indifferente. "Se guardi nell'abisso, l'abisso guarderà te", scriveva Nietzsche. In un incubo notturno, nel volto di uno sconosciuto, l'abisso poteva essere ovunque, a ricordare implacabilmente che la vita è dolore, sofferenza, crimine.

Si guardò allo specchio mentre indossava il berretto, dove il fregio metallico luccicava sotto la luce della lampadina.

Ce la poteva fare, ce l'avrebbe fatta, ne era sicuro.

«Uhé! Ciao, Bersaglia! Sei pronto?».

Marchese era comparso all'improvviso sulla soglia col suo solito ironico sorrisetto incastrato fra due profonde fossette che gli davano un'aria gioiosa, forse, anche quando piangeva.

«Ciao, Marchese. Sì, sono pronto, non vedi?».

«Bella signorina, oggi ti "sverginiamo"! Vedrai, ti sembrerà di giocare ad "acchiappiarella" quando gli arriveremo sulle croste! Scappano come topi, escono da tutti i buchi. Trovi sempre un bel letamaio, in questi campi. Di tutto un po': droga, femmine, bambini… Bisogna stare accorti, eh, Bersaglia… Quella è gente malefica, puzza di fogna, proprio come i ratti…». Nino fece un mezzo sorriso.

«Io so il fatto mio, non ti preoccupare».

«Invece mi preoccupo, me lo ricordo, sai, il mio primo blitz: un traffico di droga negli anni in cui ero di servizio a Bari. Non lo nego, non ci ho dormito quella notte, tra il dire e il fare, sai…».

«Già…».

Marchese gli si avvicinò tirandogli un amichevole buffetto sulla guancia.

Un tipo strano. Suo padre era un delinquente uscito ed entrato tutta la vita dalla galera. Sicuramente, pensava Nino, era dello stesso parere del suo: tutto poteva succedergli, nella vita, fuorché avere un figlio carabiniere. E invece eccolo qui…, il Diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

Un caffè nero e abbondante nella tazza e poi via, sul furgone, seduti, silenziosi e tesi come corde di violino.

Era ancora buio e le strade di Roma praticamente deserte. Il veicolo si fermò a cinquecento metri circa dal campo, dove otto agenti di Polizia Municipale erano già ad attenderli.

Partirono a piedi, l'uno dietro l'altro, seguendo il maresciallo Micanti, che imbracciava la sua mitraglietta muovendosi con fare sicuro.

Appena imbucarono il viottolo che portava al campo, a Nino parve di attraversare una frontiera, reale e immaginaria allo stesso tempo, una netta separazione fra la civiltà e quel paesaggio fatto di polvere, ferraglia e rottami. Una baraccopoli, case di lamiere e legno sistemate alla bell'e meglio come dentro una favela brasiliana. Nel campo c'era silenzio, dalle baracche e roulotte si levava il fumo delle stufe e il grande falò al centro dello spiazzo era oramai brace appena appena viva. Il maresciallo Micanti diede il segnale e tutti caricarono la propria pistola muovendosi a raggiera verso le baracche.

Marchese lo afferrò per un braccio.

«Stammi dietro, vieni con me».

Nino sentiva il cuore a stantuffo, pronto a sfondargli il petto.

Marchese diede un calcio deciso alla porta di assi ed entrò nella stanza.

«Fermi tutti, carabinieri! Mettete le mani sulla testa e uscite immediatamente!».

Da un angolo della stanza sbucarono uno dietro l'altro un nutrito gruppetto di bimbi, sporchi e vestiti di stracci. I più piccoli si tenevano per mano e avevano due occhi grandi, spalancati come finestre dove c'era di tutto, tranne la paura. Una bimba sui dodici anni teneva fra le braccia un neonato avvolto in un plaid di lana, lurido e pieno di chiazze scure. Un uomo e una donna con le mani appoggiate sulla testa si avvicinarono urlando a squarciagola in lingua sinti: «Nassi!!! NASSI!!!!».

Marchese si avvicinò all'uomo e gli mollò un colpo deciso sul fianco con il calcio del fucile. Quest'ultimo si accasciò con un gemito di dolore, appoggiandosi alla donna che cercava di sorreggerlo. Guardava dritto in faccia Marchese con un odio furioso nello sguardo.

«Stai zitto, bastardo! Di qui ora non scappa nessuno! Fuori!!!! Ho detto FUORI!!! In silenzio!». E poi, voltandosi verso Nino, che era rimasto immobile sull'uscio: «E tu, vuoi darti da fare? Fai un giro in questo letamaio, guarda anche sotto i letti, perché te l'ho detto, sono sorci, si nascondono nelle tane, questi bastardi…».

Non era nel suo stile quel modo di esprimersi, ma la tensione gioca brutti scherzi e certamente non tira fuori la parte migliore di te.

Nino, con la Beretta stretta nel pugno, iniziò a perlustrare la stanza. Una ventina di metri quadri, qualche cassetta accatastata custodiva un po' di pentolame annerito, un gas a due fuochi e una grossa bombola a cui era collegata una di quelle vecchie stufe fuori commercio da almeno un ventennio. C'erano due letti matrimoniali allestiti alla meglio con dei materassi sgangherati recuperati in qualche discarica. Sul pavimento, alcune vecchie trapunte servivano sicuramente come giaciglio per i più piccoli. Un odore di melma, di pantano, di nebbia permeava l'aria. Dietro una tenda da doccia bucherellata, un catino di ferro era pieno per metà di urina ed escrementi. Nino dovette premere forte il palmo sulla bocca per trattenere il conato di vomito che gli stava squassando lo stomaco e la gola. Dio, ma come può ridursi in questo modo l'umanità? Dove? Dove ha lasciato, l'uomo, la dignità?

Nella penombra, sotto una pesante coperta militare, si udì un lievissimo gemito.

Nino strinse forte la pistola nel pugno.

«Chi è là? Fuori, esci immediatamente fuori!».

Una voce flebile sussurrava parole incomprensibili, ripetendo sempre la stessa frase: «Camo ravo mri famiglia… Camo ravo mri famiglia…».

Con la mano tremante, Nino tirò verso di sé la coperta: comparve una ragazza magrissima e pallida, raggomitolata nell'angolo della parete, che nascondeva il viso fra i palmi anneriti dal lerciume.

«Dài, alzati e vieni, vieni con me. Non aver paura, non ti faccio del male, sono qui per aiutarti…».

Nino tese la mano, ma lei non fece cenno di alzarsi, continuando a dondolare mentre ripeteva incessantemente la nenia.

«Marchese! Marchese, vieni! Ne ho trovata ancora una, stava qui, nascosta...».

Marchese arrivò di corsa.

«Che vuoi fare, Bersaglia? Stare a guardarla tutta la sera? Prendila per quei quattro stracci e portala fuori con gli altri. Bisogna perquisirli tutti, nessuno escluso, ci sono le nostre colleghe, là fuori, che penseranno alle donne. Dài, muoviti! Bisogna setacciare ogni centimetro di baracca, il maresciallo ha già trovato un chilo di coca, nel doppio fondo della roulotte. C'è dell'altro di sicuro. Muoviti, abbiamo bisogno di te, là fuori!».

«Ma è una bambina, non vedi? È spaventata a morte… Continua a ripetere le stesse parole da dieci minuti!».

«Lo dicono tutti i bambini, qui, glielo incidono nel cervello. Significa: "Voglio bene alla mia famiglia". Lo dicono perché, se non lo fanno, li riempiono di botte. Qui i bambini sono soldi, con l'accattonaggio, guadagnano tre volte quello che riesce ad ottenere un adulto. Non possono certo permettere che i servizi sociali glieli portino via. "Voglio bene alla mia famiglia" significa: "Voglio stare qui!". È questo che va farfugliando la ragazza. Non dirà altro, puoi star sicuro, sono più addestrati delle squadre speciali! Tirala fuori, con le buone o le meno buone, e sbrigati!».

Con le ultime parole, girò i tacchi e uscì a passo svelto. Nino si avvicinò alla ragazza.

Poteva avere tredici, quattordici anni, forse anche qualcuno in meno. Deperita e trasandata com'era, risultava difficile attribuirle un'età precisa. Le afferrò il braccio con dolcezza e, riposta la pistola nella fondina, con l'altra mano le sollevò il viso. Due larghe strisce marroni dividevano a metà le guance scavate. Gli occhi erano di un verde brillante, come quelli di un gatto. Aveva ciglia lunghe, nere come catrame e una bocca carnosa e rosea, unico connotato di gioventù in un volto deturpato dalla miseria.

«Alzati, vieni con me. Non avere paura… Come ti chiami?».

«Camo ravo mri famiglia… CAMO RAVO MRI FAMIGLIA!!!».

Il tono della voce si era alzato e fatto più risoluto. La ragazza guardava fissa Nino, inchiodandolo con quelle screziature di verde che lanciavano bagliori intensi, carichi di odio.

«Basta, ti prego, smettila!».

Mentre lo diceva, d'istinto, Nino abbracciò la ragazza intorno alle spalle, stringendogli la testa contro il petto.

«Lo so, io lo so che schifo è la tua vita. Lo so che non conosci niente, oltre a questo. Ma ti prego, fidati di me, dimmi come ti chiami».

Pronunciando l'ultima frase, Nino le aveva sollevato il volto. La sorpresa gli mozzò le gambe. Sul lato destro del collo, grande quanto una foglia di vite, si allungava una macchia color caffè, assumendo contorni precisi e mettendo in evidenza un quasi perfetto profilo.

«Aidoann… Mio nome…», mormorò sconfitta la ragazza, smettendo di urlare.

Nino non riusciva a togliere gli occhi da quella voglia stampata sulla pelle: era come quella che aveva visto sul collo di Luciana, quel lontano giorno nel torrente. Poteva trattarsi di una coincidenza? Una casualità? Chi diavolo era quella ragazza?

Martedì

In caserma erano stati portati una ventina di uomini e sei donne. Nessuno di loro spiccicava una parola in lingua italiana, per cui fu necessario procurarsi un interprete. Solo due risultarono in regola con i permessi di soggiorno, tutti gli altri erano clandestini senza nome né cognome. I minori erano stati affidati al Servizio di Assistenza Sociale.

Nino continuava a pensare alla ragazza. Aidoann, aveva detto di chiamarsi.

L'immagine della "voglia" impressa sulla pelle era rimasta scolpita nella sua memoria, non poteva in alcun modo dimenticare o fingere che non fosse accaduto. Decise di chiamare casa e di farsi dare il numero telefonico dei Mampreso. L'avrebbero forse scambiato per matto o per impiccione, ma qualcosa dentro di lui lo spingeva ugualmente ad agire in quella direzione, giusta o sbagliata che fosse.

Il telefono squillò più volte, prima che una voce flebile rispondesse.

«Pronto, chi è?».

«Ciao mamma, sono Nino…».

«Oh, Ninetto, ché mai? Non chiami, di solito, la mattina…».

«Tutto a posto, mamma, è solo che ho bisogno di un piacere: qui non c'è l'elenco telefonico della Provincia di Cuneo, puoi darmi il numero dei Mampreso, sai quelli della Luciana? Ho bisogno di parlare con loro».

«Coi Mampreso? Ma perché? Cosa c'entrano con te?».

«È una storia troppo lunga da spiegare, ma'… Poi ti richiamo, intanto dammi il numero, per piasì, ti aspetto al telefono, dài!».

«Eh va bin! Aspetta due minuti e te lo cerco, devo averlo scritto sulla rubrica. Sai, il Meo aggiusta un po' di tutto, l'ho chiamato mica tanto tempo fa per un rubinetto che perdeva… Ecco… Hai da scrivere?».

«Sì… sì… Dimmi…».

«0171-754343… Ripeto?».

«No, no, grazie, mamma, ho scritto tutto. Ora ti devo salutare, sono in servizio e non posso rimanere troppo al telefono. Ti chiamo domani sera, va bene? Ciao e grazie, né…».

«Ciao, Ninetto. Copriti bene, che fa freddo, mi raccomando… Poi domani mi dici tutto e mi racconti cosa te ne fai del numero dei Mampreso... Sun propi curiusa…».

Nino salutò la madre mentre pensava che non aveva dubbi sulla sua "curiosità". Era sempre stata un po' pettegola, ce l'aveva nel Dna, non c'era niente da fare. Nemmeno vivere in quel borgo di montagna privava l'umanità dei suoi difetti. Anche se erano in pochi, non si toglievano mai il gusto della chiacchiera, quasi fosse una spezia capace di insaporire il quieto vivere, dandogli una vena gustosa e, a volte, piccante.

Mentre componeva il numero dei Mampreso, ancora non aveva ben chiaro cosa dire e, soprattutto, come dirlo. La voce maschile che rispose aveva un tono greve e profondo, era Meo Mampreso.

«Salve, scusi se la disturbo. Sono Nino, Nino Bersaglia, sa... quello che fa il carabiniere…».

«Oh! Nino! Come stai? Dove ti hanno mandato, adesso? Eri a Firenze…L'ultima volta che ho parlato con tua madre mi ha detto così. Come mai questa chiamata? Devi parlare con i tuoi e non riesci a contattarli? Se vuoi vado a dirglielo io… Ti faccio chiamare da qui…».

«No, no, Meo, chiamo per un'altra cosa. Io… dovrei chiedere… Non so se faccio bene o male ma… mi servirebbe una foto della Luciana, un primo piano, dove si veda bene anche la "voglia" che aveva sul collo… Mi rendo conto che la richiesta potrà sembrarle assurda, ma ho i miei motivi, Meo, posso assicurarle che ho delle ragioni ben serie. Non posso spiegarle, adesso, sono in corso delle indagini e in questi casi non è possibile rivelare nulla… Si fida di me, Meo?».

Non si udiva più alcuna voce, solo un respiro roco e leggermente affannato.

«Meo! È ancora lì?».

«Sì, sono qui. Ma senti un po'… Chi ti dà il diritto, dopo tutti questi anni, di spalar terra dalla tomba della Luciana? Ma tu lo sai, il dolore che abbiamo provato? Hai idea di quante lacrime sono state versate? Se tu non fossi Nino, figlio di Antonio Bersaglia, t'avrei già mandato a quel paese! Una foto della Luciana… vuoi una foto della Luciana! Mia figlia è morta da tredici anni, Nino, ma a noi sembra ieri, cosa credi? L'unica sua foto che abbiamo stampata in testa è quella nella camera mortuaria, quando ce l'hanno fatta vedere, bianca e gonfia, con i capelli inzuppati di terra e foglie! Ora, dopo tutto 'sto tempo, cosa diamine ci può essere di tanto importante che riguardi Luciana? Stiamo cercando di sopravvivere a questo lutto e, credimi, è una fatica immane. Anche se lo trovassero, il bastardo che l'ha ammazzata - perché l'hanno ammazzata eh, Ninetto, io ne son sicuro - guarda, non lo voglio sapere, né vedere».

«Lo so, mi rendo perfettamente conto, Meo. Mi creda, ho riflettuto molto prima di chiamare, ma è una cosa davvero importante. La prego, si fidi di me, io sono "dei vostri", non farei mai nulla per arrecarvi danno… Per favore, una foto, anche di quand'era più giovane, l'importante è che si veda bene…».

«La macchia di caffè… Ho capito. Non so, devo guardare se ne trovo una… E poi? Come te la faccio avere?».

«Me la spedisce, per posta celere, se possibile: ho bisogno che arrivi il più in fretta possibile, Meo... Io le chiedo davvero scusa, ma…».

«Lasa perdi… Oramai l'hai fatto! Ti chiedo solo un favore: non parlare di questa storia a mia moglie Lidia! Non si è più ripresa, dopo la morte di Luciana, non so come la prenderebbe… Se richiami chiedi di me, di me e basta, va bin?».

«Certo, certo, Meo, stia tranquillo… Allora aspetto la busta, mi raccomando, domani, se può… me la mandi…».

«Eh! Domani o dopo domani, dopo tredici anni non credo che un giorno faccia una gran differenza! Te la mando appena scendo in paese, lo sai meglio di me che qui non c'è l'ufficio postale, no?».

Nino avrebbe voluto insistere, ma si rendeva conto che già aveva abbondantemente esagerato, fiondandosi come un siluro nella giornata e nel dolore di Meo. Si limitò a dettare l'indirizzo esatto della caserma e a salutare, rimarcando con delicatezza, ancora una volta, la necessità di ricevere la missiva nel più breve tempo possibile.

Bene, c'era riuscito. Ora non rimaneva che aspettare.

Uscì dal suo alloggio e si diresse alla caserma. Il maresciallo aveva le guance violacee e faticava a contenere il nervosismo.

«Ma guarda un po' se mi devo passare tutto il giorno in mezzo a 'sti disgraziati. Tutti immacolati come la neve, tutti puri come San Gesualdo! Sti pezzi di m…».

Si morsicò il labbro per non finire la parola.

«Maresciallo, scusi, ma i ragazzini, quelli che abbiamo prelevato all'accampamento, dove sono stati mandati?».

«Bersaglia, che te ne importa dei ragazzini? C'è una montagna di rapporti da preparare, rileggere e far firmare, ti pare che mi devo preoccupare anche dei ragazzini? Dove vuoi che siano? Sono al centro d'accoglienza, li avranno ripuliti da pidocchi e lerciume e magari ora gli si vedono i connotati. Ci pensa il brigadiere La Rosa ad interrogarli, a prendere le impronte e a fargli le foto. Non sia mai che in mezzo ci troviamo qualche minore scomparso…».

«Io… volevo domandare…».

Micanti sbuffò stizzito. La sua rabbia a fatica trattenuta non derivava solamente dalla pesante giornata. Tutti, bene o male, erano a conoscenza del fatto che la moglie se n'era andata da circa un mese appresso al pantalone di un caro "amico" di famiglia. Lui non ne parlava, ma certo dentro doveva avere un fuoco che gli bruciava stomaco e cervello. Nino, quindi, tacque, mentre il maresciallo continuava.

«Tu, Bersaglia, non hai niente da domandare. L'unica cosa che devi fare, adesso, è sederti a quella scrivania e fare il lavoro che ti ho detto... Quando hai finito, domandi... ma solo quando hai finito!».

Non era il caso di indisporlo ulteriormente, insistere avrebbe potuto innescare micce che, nel futuro, avrebbero finito per minare il buon rapporto che i due avevano sempre avuto. Micanti, di solito, si presentava accomodante. Meritava tutta la comprensione del mondo in quella giornata iniziata prima dell'alba e proseguita catastroficamente nella mattinata: c'era di che fagocitare anche l'ultima briciola d'allegria.

Nino si sedette silenzioso alla scrivania e iniziò a lavorare.

Alle cinque del pomeriggio terminò la battitura dell'ultimo rapporto. Era stanco morto, con un dolore fisso proprio dietro al collo che gli percorreva la spina dorsale come una stilettata.

Dalla porta d'ingresso entrò sbuffante il brigadiere La Rosa.

«Bersaglia!! Stai comodo tu, alla scrivania, eh! Madonna mia, che giornata! 'Sti ragazzini sono peggio dei genitori, non spiccicano parola manco a morire. Ce n'è una, poi, secca secca, che non fa altro che ripetere sempre la stessa frase, all'infinito. Secondo me non è a posto, proprio di testa, intendo!».

«Sì, me la ricordo quella… L'ho trovata io sotto una coperta nella baracca. Marchese ha detto che quanto ripeteva significava: "Io amo la mia famiglia"… Ma dov'è adesso questa ragazzina?».

«Non ha uno straccio di documenti, ha fatto un macello, urla a non finire, se ne voleva andare, ma per ora nessuno è venuto a reclamarla. Non sappiamo chi sia né da dove venga, quindi nemmeno dove rimpatriarla. Per ora è al centro d'accoglienza, poi vedremo. Ho fatto le foto, le invieremo all'Interpol, tanto così… per sicurezza. Dobbiamo accertare che non si tratti di una minorenne "sparita" in qualche parte del mondo. Sai, gli zingari sono specialisti in questo settore…».

Nino, mentre La Rosa continuava a blaterare, sperava che la ragazza rimanesse al centro per qualche giorno, almeno per il tempo necessario affinché arrivasse la missiva di Meo.

Mercoledì

Erano le undici quando il fattorino entrò nella caserma.

«Devo consegnare una busta al carabiniere Bersaglia...».

Nino si precipitò fuori dal bagno e, con mano tremante, appose la sua firma sopra il registro di consegna. Meo aveva fatto di più che una semplice posta celere: rivolgendosi ad un corriere espresso per una consegna nell'arco di quarantotto ore, era riuscito ad abbreviare al massimo i tempi di attesa.

Aperta la busta, comparve la foto di Luciana. Era di piccola dimensione, scattata mentre la ragazza era seduta sulla spiaggia. La macchia sul collo era ben visibile ed era esattamente come Nino la ricordava, perfettamente identica a quella che aveva anche la ragazzina. Non c'erano dubbi, un nesso doveva per forza esistere. Era il momento di parlare con il maresciallo Micanti.

Nino bussò alla porta dell'ufficio con mano malferma.

«Avanti!».

«Scusi, maresciallo, dovrei parlarle un attimo, se possibile…».

«Cosa c'è, Bersaglia, hai bisogno di una licenza?».

«No, maresciallo, io devo riferire un fatto. Forse non avrà seguito, magari non è importante, ma…».

«Allora, Bersaglia, per quanto ancora vogliamo continuare a girarci intorno? Dimmi, forza! Non ti hanno insegnato che nell'Arma ogni cosa ha il suo peso? Ogni dettaglio rappresenta la minuscola tessera di un puzzle che può servire a comporre un disegno? Cosa c'è? Cosa devi dire?».

Nino ingoiò a forza la saliva e iniziò a raccontare. Parlò di Luciana, di quel lontano giorno in cui era stato ritrovato il suo cadavere. Mostrò la foto al maresciallo ed espose le sue deduzioni in merito alla medesima "voglia" che era visibile sul corpo della ragazzina sinti. Chi altri poteva essere quella ragazzina, se non la figlia della Luciana? La somiglianza era palese, inconfutabile, ma come provarlo?

Il maresciallo Micanti ascoltava silenzioso.

«Ma come ti è venuta quest'idea, Bersaglia? Parliamo di una tizia morta ben tredici anni fa…».

«Sì, lo so, infatti la ragazzina dovrebbe avere più o meno quell'età… Io credo che dovremmo tornare all'accampamento e cercare bene nella baracca, magari ci troviamo qualcosa che può in qualche modo dar credito alle mie teorie... Sempre se lei è d'accordo, maresciallo…».

Micanti lo squadrava attento, picchiettando con la matita sul piano della scrivania.

«Certo che sei un bel tipo, Bersaglia. Non bastano i problemi di oggi, bisogna andare a cercare pure quelli di una volta?».

«Lo so… però…».

«Va bene, va bene. Recupera nel dossier le foto della ragazzina, se ne trovi una dove si veda bene quella "macchia" che tanto t'interessa, me la fai vedere. Non dovessi trovare un'immagine in cui appaia nitida, chiedi a La Rosa di scattare altre foto. Domani mattina torniamo in quella baracca e facciamo ancora un'ispezione, così dormi tranquillo, eh, Bersaglia?...».

Pronunciando l'ultima frase si era proteso ad un palmo dal naso di Nino e lo fissava dritto nelle pupille.

«Grazie, maresciallo…».

Micanti non rispose e tornò alla lettura dei suoi rapporti. Nino salutò ed uscì a passo svelto, diretto alla scrivania di La Rosa. Marchese gli sbarrò il passo con il braccio teso ed il solito sorriso stampato sulla faccia.

«Bersaglia, dove te ne vai così di fretta?».

«Devo parlare con La Rosa, mi servono le foto dei ragazzini sinti, il maresciallo le vuole vedere».

«Guarda, sono lì sulla mia scrivania, le ha posate prima La Rosa, devo ancora sistemarle e catalogarle…».

«Ci do' un'occhiata, ti dispiace?».

«Fai pure… Son tutti uguali, tanto, quei piccoli sorci... Con quegli occhi che sembrano lanciare anatemi… una razza maledetta...».

«Saranno quel che sono, Marchese, ma son pur sempre bambini, non hanno colpa. Sono i loro genitori, semmai, i veri bastardi...».

«Fidati... Sono carogne già in fasce!».

Nino aprì la cartellina e apparvero una serie di facce con carnagione leggermente ambrata ed occhi neri come la pece. Solo una, invece, aveva la pelle chiara e due grandi occhi verdi. Negli scatti che la riprendevano di profilo, la "voglia" era evidente. Prese la fotografia e ritornò dal maresciallo.

Micanti tirò su il capo con aria scocciata.

«Sei già qui? Cosa c'è, ancora, Bersaglia?».

«La foto, maresciallo, guardi! Che dice, non è forse uguale?».

Il maresciallo confrontò le due fotografie attentamente.

«Potresti avere ragione, sai, Bersaglia? In effetti la somiglianza c'è, eccome. Avere stampato sul collo un segno particolare di questo tipo e dimensione… beh... non può essere una semplice casualità. Dimostrare quel che tu asserisci, però, è molto più complicato: per giungere ad una conclusione certa bisognerebbe confrontare il Dna della ragazza con quello della madre. Tu credi che la prenderanno bene i genitori a veder disseppellire la propria figlia dopo tredici anni?».

«Lo so, maresciallo… Io spero di poter trovare un altro modo… Lo spero veramente…».

«Lo spero anch'io, Bersaglia. L'idea di mettere in piedi tutta questa storia per poi magari fare un buco nell'acqua, non mi solletica per nulla. Sai, è difficile spiegare, dopo… Non basta chiedere scusa…».

«Maresciallo, cerchiamo nella baracca. Se poi non si trova nulla, decidiamo sul da farsi… Almeno proviamo...».

«Va bene, domani mattina alle otto, tieniti pronto».

«Certo, maresciallo… A domani, alle otto».

Nino uscì dalla stanza con il cuore più leggero, aveva condiviso i suoi dubbi ed ora si sentiva meno solo.

Giovedì

La notte fu molto agitata. Quando riusciva a prendere sonno, il viso di Luciana gli si parava davanti come un fantasma sbucato dal nulla. Alle cinque decise di alzarsi e di uscire per fare una breve corsa al parco. Un po' di movimento non poteva che fargli bene, avrebbe allentato le tensioni e gli avrebbe permesso di giungere alle fatidiche ore otto meno teso e nervoso. Infilò la tuta, le cuffiette nelle orecchie e partì nella penombra dell'alba, con le strade ancora quasi deserte ed il fiato che si trasformava in vapore nell'aria fredda.

Per le otto era comunque pronto, con la divisa in ordine ed il cuore nel petto che rimbombava come un tamburo.

Partirono in cinque. All'accampamento erano in pochi. Qualcuno era stato trattenuto in arresto, altri, fuggiti al momento dell'irruzione, non erano più tornati. Per la maggioranza erano donne ed anziani. Quando furono di fronte alla baracca, il maresciallo Micanti, a voce alta e sicura, intimò:

«Carabinieri, tutti fuori dalla baracca, dobbiamo effettuare una perquisizione...».

Dall'interno non provenivano rumori.

Marchese diede un calcio alla porta e la scena che si presentò era identica a quella di due notti prima. Nessuno, evidentemente, era più stato in quella stanza. I materassi erano ammucchiati contro la parete in lamiera, così come li avevano lasciati.

«Bene, siamo qui, Bersaglia. Non trascuriamo nemmeno un angolo di questa topaia. Non saprei dirvi cosa cercare… Qualunque cosa vi possa sembrare strana o comunque fuori luogo è da valutare. Cominciamo, forza! Non abbiamo tutta la mattina!».

Micanti, Bersaglia e Marchese rimasero all'interno, La Rosa e Tripodi andarono a perlustrare il perimetro esterno.

Dalle buste di nylon accatastate negli angoli non furono estratti che cartacce, stracci e qualche porzione di cibo andato a male. Bersaglia si diresse verso il mucchio di coperte sotto le quali aveva trovato la ragazza. Ad una ad una le scrollò, dall'ultimo plaid a scacchi rossi e gialli cadde una cordicella nera a cui era appesa una piccola medaglia. Bersaglia la raccolse, dietro vi era un'incisione: "Mater Amabilis", diceva, mentre a fronte era raffigurata una Madonna con il Bambino fra le braccia.

«Maresciallo, guardi qui! Non è strano, per dei sinti, portare al collo una medaglietta di questo tipo?».

Il maresciallo si avvicinò prendendo fra le mani la collanina.

«Strano? Con tutti i furti che fanno a destra e manca, non mi pare così strano! Medaglie come queste sono in milioni ad averle. È sicuramente di parecchi anni fa, ora non le fanno più così. Sembra la classica medaglia che si regalava ai bambini in occasione della Prima Comunione… Oggi si regalano computer, altro che medaglie, fede e Madonne!».

«E se fosse della ragazza? Se fosse… di Luciana?».

«Tu hai visto troppi film, Bersaglia, non vivi con i piedi per terra! Come possiamo, secondo te, portare avanti delle indagini sulla base di una supposizione così minima e, con ogni probabilità, puramente fantasiosa? Ma ti rendi conto?».

«Maresciallo… la prego. Facciamola vedere ai genitori, almeno. Vado io di persona, maresciallo, così non facciamo troppo rumore, la cosa rimane fra noi. Se loro mi dicono che non l'hanno mai vista prima, la chiudiamo qui. Glielo prometto, maresciallo, non la importunerò più con questa storia. Io sento che c'è un collegamento, non riesco a capire da dove arrivi questa convinzione, ma è dentro di me…».

Il maresciallo Micanti lo squadrò dalla testa ai piedi.

«Me l'avevano detto che i piemontesi hanno la testa dura, ma quanto lo fosse la tua, proprio non me lo immaginavo! Guarda… io sono abituato, da anni di carriera, a non dare mai nulla per scontato e certo. Sinceramente mi pare che tutte queste tue congetture siano fuori luogo ed esagerate, ma… Se vuoi servirti dei tre giorni di licenza che ti do' a partire da domani per giocarti la faccia e la reputazione… beh, sei libero di farlo. Vedi solo di farla finire, questa commedia… Quando torni, non ne voglio più sentir parlare, va bene Bersaglia?».

«Va bene, maresciallo, glielo giuro: se davvero mi sto sbagliando, non la disturberò più… Grazie, maresciallo».

Il maresciallo Micanti batté con la mano sulle spalle di Nino, lasciando andare un lungo sospiro. Quel ragazzo era un pezzo di pane, cocciuto e taciturno come un mulo, ma buono dentro: l'aveva capito dal primo momento che era arrivato in caserma. Negli ultimi tempi le vicende della sua vita l'avevano molto provato. Si sentiva spesso solo. Il suo lavoro, che amava tanto, non gli bastava a colmare il vuoto lasciato da Elena, sin dal giorno che se n'era andata. Avrebbe voluto poter tornare indietro, al momento in cui anche lui era un giovane pieno di speranze, di fantasia, di ottimismo. Bersaglia, davanti a lui, ostentava uno sguardo pieno di riconoscenza, e Micanti in cuor suo lo invidiava. Lui non aveva più voglia di combattere, non ne trovava il motivo, la sua casa era vuota, nessuno lo attendeva la sera; Bersaglia, invece, sapeva ancora inseguire un sogno. Una cosa meravigliosa, saper sognare.

Venerdì

Tre giorni di licenza. L'aereo partiva alle undici, aveva già telefonato al fratello Augusto di venirlo a prendere all'aeroporto di Le Valdigi. C'era ancora il tempo per fare visita alla ragazza, doveva assolutamente rivederla. Nella tasca dei jeans, in un piccolo sacchetto di stoffa, aveva riposto la collanina.

Al centro d'accoglienza gli aprì una donna di colore, vestita con un immacolato abito religioso. Ordine delle Giuseppine: erano loro che si occupavano del centro e dei suoi ospiti. Nino domandò dove poteva trovare la ragazza sinti arrivata un paio di giorni prima. Bastò dire della "macchia" sul suo collo per risvegliare la memoria della sorella.

In silenzio lo accompagnò lungo un corridoio e, da questo, in una grande stanza ove diversi ragazzini erano seduti a terra. Alcune bimbe giocavano con bambole di pezza e i maschietti erano alle prese con un trenino. Qualcuno era in disparte e, vicino alla finestra, con lo sguardo incollato al vetro, c'era lei.

Nino ringraziò Suor Anna - così si chiamava - e si avvicinò ad Aidoann. Lei era immobile, ma le labbra continuavano a muoversi nella medesima nenia che, evidentemente, non aveva mai smesso di ripetere.

«Ciao…», esordì Nino, cercando di infondere quanta più pazienza e dolcezza possibile nella voce, «ti ricordi di me? Aidoann… mi hai detto di chiamarti così, no?».

La ragazzina si voltò e lo guardò dritto in faccia, due grossi lacrimoni le pendevano dagli occhi; si avvicinò e, senza dire parola, abbracciò Nino all'altezza dei fianchi - quella che le permetteva di raggiungere la sua statura - stringendolo forte.

«Portare a casa… ti prego… portare a casa!».

«Aidoann… Dove sono tua madre e tuo padre?».

«Madre non sapere dov'è. Era qui, poi andata via… Padre lontano, non conosco padre, io».

Nino tirò fuori dalla tasca la piccola medaglia.

«Guarda, Aidoann… Guarda questo: è tuo? Dimmi, è tua questa collana?».

La ragazza, con un movimento repentino, strappò la cordicella dalle mani di Nino.

«Mia! Mia collana! Mia! Dài a me! Camo ravo mri famiglia!».

Nino le afferrò con dolcezza un braccio.

«Ascolta, Aidoann: devi prestarmi questa collana per qualche giorno, poi te la riporto, te lo prometto. Devo trovare tuo padre. Tu vuoi che lo trovi, così ti porta via da qui?».

Lei rimase pensierosa per qualche minuto, poi allungò la mano verso Nino e gli porse la collanina.

«Grazie, Aidoann. Ti fidi di me?».

«Cosa è "fidi"?».

«Amico… Sono tuo amico, ok?».

Un timido sorriso incurvò le sue labbra.

«Tu amico grande… io piccola. Tu trovare famiglia Aidoann?».

«Sì, io trovare famiglia Aidoann…».

Nino strinse a sé quel corpicino esile e sentì un mare, agitarsi nel suo cuore. Il carabiniere era quel che sempre aveva voluto fare, ora poteva dimostrare a tutti che era davvero quello il suo destino.

Quando fu seduto sull'aereo, mentre dal finestrino guardava la metropoli romana farsi sempre più piccola, iniziò a faticare nel tenere a bada l'ansia e l'impazienza. E se la medaglia non avesse avuto niente a che fare con Luciana? Come avrebbe fatto a sostenere lo sguardo accusatorio di Meo? Come sarebbe riuscito a tenere a bada la vergogna per aver scavato nel lutto di quella famiglia che tanto aveva fatto per riuscire almeno a fingere di aver dimenticato?

All'aeroporto Augusto era puntuale, con la sua furgonetta sgangherata.

«Ciao, Ninetto! Come mai una licenza in questo periodo?».

«Eh, à lé lunga da spieghé… Poi stasera, a cena, ti racconto. Ora, prima di andare da mamma, dovresti per favore lasciarmi dai Mampreso. Me la sbrigo in un'oretta, vengo a casa piedi, tanto son due passi…».

«Dai Mampreso? Che c'entrano i Mampreso?».

«'Gusto! Ho detto che te lo spiego dopo, dài, metti in moto che altrimenti facciamo tardi…».

«Oh là là! Solo perché hai una divisa ti senti il Padreterno?».

«Ma no, dài! È lavoro, 'Gusto! Dài, forza, andiamo… Tranquillo, che poi ti dico».

Augusto partì a malincuore, non senza cercare, strada facendo, di soddisfare la sua curiosità tentando di carpire qualche informazione in più.

Nino, ben attento a non cedere, sviò il discorso, tirando un lungo sospiro di sollievo quando, da dietro la curva, vide la casa dei Mampreso. Scese salutando Augusto e si diresse verso l'ingresso. Mentre il pugno batteva sull'uscio, dentro di sé, la paura di aver commesso un errore, un madornale errore, cresceva. Meo aprì la porta e, vedendo Nino, immediatamente la richiuse alle sue spalle, spingendo il visitatore fuori dalla visuale.

«Ti ho detto oppure no di non tirare in mezzo mia moglie in questa storia? E tu che fai? Ti presenti addirittura qui! Ma ses propi fòl, alùra! Garula! Idiota!».

Nino deglutì la saliva a forza e, anziché tentare di accampare scuse, tirò subito fuori dalla tasca della giacca la medaglia.

«No, Meo… Io son venuto per questo…».

Meo prese in mano il piccolo gioiello. Lo guardò da ogni lato, fermandosi sulla scritta che vi era incisa a tergo: "Mater Amabilis".

«E questa dove l'hai presa? DOVE?».

«L'ho trovata in un campo nomadi, a Roma, ce l'aveva una ragazzina…una ragazzina che…».

«Questa è della Luciana, della Luciana, capisci? Gliel'abbiamo regalata noi alla Prima Comunione, l'ha benedetta Don Aldo, questa medaglia, se la vede la riconosce pure lui. Guarda, guarda qui, li vedi questi piccoli segni? Sono denti, la Luciana aveva il vizio di metterla sempre in bocca, sai quante volte l'ho sgridata per questo? Io voglio vedere questa ragazzina, Nino... La devo vedere!».

«Ehilà, ciao Nino! Sei in licenza?», la voce di Alfredo fece trasalire entrambi.

«Alfredo, Alfredo ven, ven sì», incitò ansimante Meo, «vieni a vedere cosa mi ha portato Nino, guarda, guarda! La medaglia della Luciana, a Roma l'ha trovata, Madre Santissima!».

Alfredo sbiancò e le sue gambe divennero barcollanti. Nino colse all'istante il suo disagio e, prendendolo sottobraccio, lo fece sedere sul ceppo che era accanto a lui.

«Scusa, Alfredo, sono stato troppo brusco… Lo so quanto volevi bene alla Luciana…». Meo era dispiaciuto mentre continuava a stringere fra le mani la piccola collana, tribolando a trattenere le lacrime. Alfredo ansimava, strinse la testa fra le mani e, con un filo di voce, attaccò:

«Son passati tredici anni... tredici maledetti anni. Lo sapevo che, prima o poi, avrei dovuto tirare fuori quel che sto per dire…».

«Cosa, Alfredo… cosa devi dire?», domandò Nino con uno strano presentimento nel cuore.

«Quattordici anni fa… ti ricordi, Meo, quando sono andato a cercare Luciana?». Meo era muto e rigido, in piedi di fronte a lui, sembrava di pietra. «La trovai a Cremona. Stava con un gruppo di sbandati e dormiva nella stazione. L'ho convinta a venire via con me, a tornare a casa. Sembrava cambiata, ti ricordi, Meo? Quella notte, a Cremona, lei era contenta di vedermi, siamo andati a dormire in albergo e… abbiamo fatto l'amore». Si fermò un secondo per riprendere fiato. «Lei era rimasta incinta, Meo… Io la volevo sposare, volevo quel figlio quanto volevo lei, ma non c'è stato niente da fare. Quant'era rimasta qui? Cinque, sei mesi, poi è sparita di nuovo. Prima di andarsene, mi ha detto che aveva abortito. Io, Meo, sono stato male come un cane. Non gliel'ho perdonata mai, non doveva farmi una cosa così… proprio a me… che l'amavo da morire! Io ho pensato tante volte che forse poteva avermi raccontato una bugia, che poteva non essere vero che aveva ucciso quel bambino… Ma poi lei è morta così com'è morta, ed io non ho mai detto niente per non farvi soffrire ancora di più… Non me la sono sentita…».

Nino aveva ascoltato ogni parola, mentre nel suo cervello si affollavano supposizioni.

«Alfredo, ascoltami. Non potevi far diversamente… Se lei ti aveva detto di aver abortito, non avevi motivi per mettere in agitazione Meo e Lidia basandoti su una semplice congettura... Hai fatto la cosa giusta. Adesso, però, c'è un fatto nuovo, importante. A Roma ho trovato una ragazzina in un campo nomadi: ha sul collo una voglia identica a quella della Luciana, e possedeva questa collanina. Ora… ragioniamo: gli anni calzano, la somiglianza è impressionante. Lo sai cosa credo? Credo che Luciana non abbia avuto il coraggio di abortire, credo che abbia abbandonato la sua creatura e che poi, presa dal rimorso, sia venuta a togliersi la vita qui. Si è punita, in modo irreparabile, per la sua colpa, Alfredo. Forse avrebbe voluto venire da te, ma si vergognava, non poteva confessarti quello che aveva fatto… Alfredo… penso sia andata così…».

«Ma allora… Ho una nipote, Nino, una nipote! Dobbiamo andare a prenderla… Dobbiamo…», Meo era in preda ad un'agitazione che l'aveva fatto diventare paonazzo.

«Calma, Meo, calma. Per fugare ogni dubbio, dovremo fare un confronto del Dna. Non credere, poi, che sia così semplice portarti a casa quella ragazzina. Ha vissuto con i sinti, sino ad ora; è spaventata, una straniera, per voi…».

«Faremo quel che c'è da fare, Nino, tutto quel che c'è da fare. Ora vado da Lidia e le spiego tutto. Capirà, e sono sicuro che anche lei è disposta a tutto pur di avere qui con noi la figlia della nostra Luciana... È lei che ritorna, Nino, è Luciana che torna da noi!», Meo partì quasi correndo verso casa, chiamando la moglie a gran voce.

Nino rimase accanto ad Alfredo, in silenzio. Quando sarebbe stato davanti al maresciallo Micanti, avrebbe potuto dire che non si era giocato né la faccia né l'onore.

Rimase dai Mampreso ancora un paio d'ore, discutendo sul da farsi, poi finalmente tornò, a passo lento e un po' stanco, verso la sua casa. Mamma Cesca lo aspettava seduta sul dondolo sotto il portico. Lo abbracciò forte schioccando un sonoro bacio sulla sua guancia, arrivò anche suo padre, che invece ebbe un saluto molto più freddo. Niente da fare: quella scelta ancora non l'aveva digerita.

A tavola, però, quella sera, Nino raccontò quanto era accaduto. Tutti fecero grandi esclamazioni di meraviglia, ma le uniche parole che avrebbe ricordato Nino, di quella sera, sarebbero state due:«Bravo, Nino!». Gliele aveva dette suo padre, dandogli una pacca sulla spalla.

Sabato… di un mese dopo

Alfredo aveva fornito il suo Dna: quale probabile padre, il suo era più che sufficiente, così che si poteva lasciare il corpo di Luciana riposare in pace. Il confronto con quello di Aidoann aveva dato la risposta che, per tutti, era già scontata.

Nino, seduto sulla panchina, guardava in lontananza Meo, Lidia ed Alfredo parlare con Aidoann.

Le avevano comprato un vestito in flanella, non propriamente adatto per la temperatura romana, ma loro, si sa, di inverni conoscevano solo quelli piemontesi. Se la sarebbero portata via di lì ad un paio di settimane. La ragazzina doveva almeno conoscerli, per lei non rappresentavano che tre perfetti estranei e, sicuramente, l'unica cosa che provava in quel momento era paura.

Il tempo avrebbe rimediato. Per Luciana non poteva fare più nulla, ma per Aidoann sì.

In caserma Micanti lo chiamò a rapporto.

«Comandi, maresciallo!».

«Bersaglia, quella testa dura da piemontese… non la perdere mai!».

Si misero a ridere entrambi, mentre una lunga e forte stretta di mano correva salda… di visiera in visiera.