Cosa non ha funzionato nel James Bond di Timothy Dalton?
Difficile stabilirlo anche perché a più di vent’anni di distanza resta un buon film. Dalton di sicuro era fisicamente più prestante dell’ormai affaticato Roger Moore e il tono quasi farsesco degli ultimi film aveva lasciato spazio a una trama più complessa con solo qualche venatura ironica che, comunque, non stona.
In 007 Zona pericolo (The Living Daylights, 1987) c’è un’idea presa dal racconto omonimo (The Living Daylights, 1966), ossia Bond che rifiuta di sparare per uccidere quando si accorge che il cecchino è una donna, ma il resto della trama è curiosamente (anche se molto fantasiosamente) ispirato alla realtà di quegli anni, il conflitto russo-afghano in primo luogo.
È strano vedere un Bond che si muove tra scenari della Guerra fredda e l’invasione dell’Afghanistan a pochi anni dalla caduta dell’URSS e dalla fine dell’occupazione stessa. Del resto la Storia è imprevedibile. Bond invece capisce subito che la parte scritta per lui dall’astuto generale Koskov, interpretato da Jeroen Krabbé con buona aderenza al ruolo, ha qualcosa di sbagliato. Per cui seguiamo con sospetto il dipanarsi di una presunta operazione di eliminazione di spie inglesi secondo una vecchia strategia dei tempi di Beria.
Smiet Spionam, morte alle spie, era la sigla della Smersh, un bel riferimento al Bond originario. Non dispiacciono quindi le sequenze di Bratislava e di Vienna che spostano l’abituale glamour della serie verso setting più realistici. E se i mujaheddin vanno ancora a cavallo come in un vecchio film d’avventura coloniale lo possiamo perdonare.
Meno mi piace il confronto finale con Whitaker che sembra un po’ bambinesco con i diorami e i cannoncini finti. Molto meglio le sequenze alla casa-sicura dell’MI6 e la vertiginosa lotta sull’aereo che trasporta l’oppio. È anche un film in cui M non ha ancora trovato una buona sostituzione e Moneypenny ci abbandona lasciando spazio a una graziosa ma insipida vicaria.
Le donne... appunto. Forse qui il problema maggiore che alterò la percezione del personaggio e dell’interprete. 007 è sempre stato uno sciupafemmine. Già in Servizio Segreto il matrimonio, pur consumato brevemente, lasciava una sensazione di straniamento dal personaggio originale. Bond è un eroe di quelli fatti per vivere una vita più grande degli altri. A loro è negato l’amore coniugale e romantico.
Maryam d’Abo è un bell’uccellino, tra l’altro in parte con il suo personaggio di fanciullina ingannata, ma... purtroppo non è una Bond Girl. Manca cioè di quella carica di sensualità e aggressività che persino Tanya Roberts possedeva. Si parlò all’epoca di AIDS, di messaggio da lanciare attraverso il personaggio per scoraggiare la promiscuità sessuale. Io non credo che il problema fosse realmente quello. Penso piuttosto che, come a volte avviene nel cinema o nei romanzi, che qualche esperto di marketing sia uscito con l’ideona. Cioè: Cambiamo il personaggio rendendolo più accettabile alle donne moderne con una marcata fragilità sentimentale. Errore grossolano.
Bond è un personaggio virile, a volte esasperatamente. Piace per questo a una foltissima schiera di uomini e, mi spiace per un certo pubblico femminista, anche a una nutrita schiera di donne che, ai tempi, riecheggiavano una canzone ispanica che diceva «quiero un hombre macho». Così è e così sarà. Non c’è modo di convincere chi ha un pregiudizio verso un personaggio ad accettarlo. Più facile deludere i suoi fan che non lo riconoscono più. E io credo sia stato proprio questo che è successo con Dalton, che ha l’occhio sempre un po’ lucido e tenerone ma che, per ragioni di trama, duro è e duro deve diventare. Che si rifiuti di uccidere il cecchino nemico perché è una donna è logico, non è un mostro. Ma alcuni passaggi sdolcinati con la bella Maryam proprio stonano.
Per il resto Zona pericolo cerca di adattarsi all’action movie di quegli anni. È sicuramente più muscolare, più crudo anche nelle scene di lotta dei film precedenti. Non per nulla Necros (Andreas Wisniewski), il killer russo che libera Koskov, è presente anche in un altro grande successo dell’epoca: Die Hard. Trappola di cristallo. Ballerino, quindi capace di scimmiottare gesta marziali, si distingue bruciando la faccia su una graticola a un agente inglese e lottando a quattromila piedi con Bond, attaccato a un carico d’oppio.
Pessimo Leiter (John Terry) giovane e assolutamente inapparente, lascia spazio a Pushkin (John Rhys-Davies) nuovo capo del KGB dopo che il generale Gogol per anzianità è passato ai servizi diplomatici. Pushkin non può essere patito e questo è forse sin troppo evidente da principio, ma i film di Bond non ci propongono mai veramente dei traditori totalmente insospettabili. Anche Kristatos in Solo per i tuoi occhi era ovviamente un villain sin dal momento in cui si rifiutava di stringere la mano al povero agente Ferrari. Ma lo spionaggio jamesbondesco è così, sempre un po’ sopra le righe, più vicino all’avventura spettacolare che al vero gioco di inganni.
Gli anni ’80 stavano per finire e con loro la Guerra fredda. Presto Bond avrebbe avuto bisogno di nuovi nemici... e forse anche di un nuovo volto, realmente convincente.
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