Insomma, per colpa delle squame bianche, tre giorni fa stavo per cadere per la prima volta nella mia foruncolosa esistenza in un temibile stato di prostrazione e di dolore.

Poi ho ripreso coraggio.

Mi sono staccato dall’aratro e mi sono allontanato dalla mia immagine riflessa sulla lama. Mi sono rimesso in piedi sentendo i muscoli delle cosce che bruciavano per lo sforzo e ho cominciato a pensare.

Cazzo, io sono il Cardo, mi sono detto, sono primitivo, rozzo, scadente e forse anche scaduto, ma sono ancora io, il Cardo. Ho sempre riso di tutto, io, e ho sempre guardato gli altri con la pietà che meritano i miserabili che inseguono sogni e illusioni, perché io, il Cardo, ho sempre voluto un po’ di meno di ciò che avevo (questa cosa qui di volere meno di ciò che si ha non è che sia facile da fare come dirlo, e per metterlo in pratica ci vuole davvero un fisicaccio della malora). Lo ripeto, per i tonti che hanno bisogno delle ripetizioni: me la sono sempre goduta perché ho sempre voluto meno di ciò che avevo. Fin da ragazzo ho scelto di stare alla larga dai miei simili e ho trascorso gli inverni accartocciato sul pallet aspettando il caldo e ubriacandomi alla bocciofila.

Dunque, con questi muscoli del carattere non mi faccio mettere in un angolo da quattro scaglie di parmigiano spuntate all’improvviso sulla mia faccia, tra la sera e la mattina. Ed ecco il seguito del ragionamento che ho sviluppato dopo aver ritrovato fiducia in me stesso e nel futuro: per poter toccare di nuovo le bianchissime e tonde sfere di Angela, tutte e quattro, dovevo semplicemente eliminare le scaglie dalla faccia. Ma non potevo certo pensare di toglierle così, con le dita, anche perché sotto ogni scaglia che si staccava appariva una zona rossa di carne viva, dai confini biancastri, e quei confini rivelavano la capacità di generare nuovi frammenti... Dovevo prendere provvedimenti urgenti, chiedere consiglio, scoprire la causa, trovare l’antidoto. Forse bastava una pomata, uno sciroppo, una supposta, che ne so, ma prima o poi sarei guarito e avrei potuto ridare al mio povero alfiere il conforto e il ricovero che merita.

Così, mi sono asciugato l’ultima lacrima, ho scrollato l’arnese e ho pensato a Ribò.

Non che lui sia un medico o qualcosa del genere, ma parla poco, e chi parla poco di solito sa le cose. Non riesco ancora a capire come faccia Ribò a essere mio amico, anche se lui ripete sempre che non ha amici, ma soltanto conoscenti. Però, amici o non amici, ogni volta che mi sono trovato nella merda lui si è dato da fare per tirarmi fuori. Lavorava in polizia, tempo fa, alla Scientifica. Adesso ha aperto una agenzia di ricerche d’archivio, persone scomparse, documenti, che ne so. Prima, alla Scientifica, faceva le analisi di laboratorio. Non lo avrei mai conosciuto se una volante non mi avesse fermato, una sera, qui davanti alla cascina, mentre rientravo con il mio vecchio Fiorino scassato e senza targa. Chi ero, chi non ero, domande, perquisizioni. E poi documenti, patente, libretto... Tutte cose che non avevo, ovviamente, e quei due mi avrebbero anche arrestato se non avessero deciso che ero soltanto un povero scemo senza fissa dimora. Poi mi hanno chiesto come campassi e io lì me la sono tirata e ho detto che facevo i trompe-l’oeil. Loro si sono guardati come se avessi rivelato che stupravo le minorenni. Allora ho spiegato che dipingevo le pareti a casa delle persone, che ero capace a dipingere, copiando, questo o quello, prospettive e quadri famosi. Ma mica li ho convinti. E infatti uno di loro ha detto che doveva chiamare Ribò per mettermi alla prova. E lo hanno chiamato, gli hanno detto che avevano per le mani uno che dipingeva sui muri. Lui mi ha fatto un paio di domande secche, lì, al telefono, e tre giorni dopo ero a casa sua, al fondo di via Maria Vittoria, al terzo piano, in un appartamento con le finestre sui Murazzi e con vista sul Monte dei Cappuccini, lì davanti. Voleva che gli dipingessi un camaleonte nella strombatura di una finestra, in modo che sembrasse vero. Ecco, in quei pomeriggi diventammo amici, o meglio, io parlavo e Ribò taceva.

E dunque, tornando alle mie squame di tre giorni fa, dopo aver visto la mia faccia ho deciso di chiedere consiglio a Ribò. Sono rientrato nel mio tugurio e mi sono infilato i calzoni di tela tutti macchiati di colore. Ho indossato una camicia che stava in piedi da sola grazie alle placche di scagliola e poi, dato che non potevo certo farmi vedere in giro con quella faccia da lebbroso, mi sono calato sulla testa un sacchetto di carta, di quelli del pane, di colore marroncino. Ho spinto due dita sulla carta agendo dall’interno per ottenere i buchi per gli occhi e sono andato alla bocciofila.