Lee Jung-Jin è uno strozzino implacabile nel suo pretendere il dovuto dai suoi “clienti”. Un giorno una donna si presenta alla sua porta affermando di essere sua madre...
Spiazzante per lunghi tratti, Pietà di Kim ki-duk (qualcuno, cattivissimo, ha scritto che il titolo è l’invocazione della platea…), fatica ad imporsi e val la pena allora di chiedersi il perché, visto la pellicola si è aggiudicata (tra l’altro…) il Leone d’Oro alla 69 Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (quest’anno targata Barbera…).
Ci sembra plausibile che lo scarto tra intenzione e risultato, alloggi anzitutto non tanto in una messa in scena dimessa come non mai (una sorta di bidonville in quel di Seoul la cui esistenza è terminata a film finito per lasciar spazio a nuove costruzioni…), quanto in uno stile che è esso stesso dimesso fino a rasentare la sciatteria per ciò che riguarda il modo stesso di girare con una miriade di inquadrature fin troppo banali e un montaggio svogliato e senza forza che appesantisce il film fin quasi a paralizzarlo in un sorta di afasia visiva.
Per il colpo d’ala (più frutto della storia che dello stile…) tocca aspettare il finale affidato non alla vendetta delle vittime, quanto ad un atto di resipiscenza dello stesso usuraio (Lee Jung-Jin) forse innescato dall’apparizione materna (Cho Min-soo).
Solo allora, questa parabola sulla “corruzione del denaro” trova la sua quadratura definitiva, e solo e soltanto allora ritroviamo il vero Kim ki-duk, come se fino a quel momento avessimo avuto a che fare con un suo sosia svogliato.
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