Partita difficilissima per i produttori Saltzman e Broccoli, lo sceneggiatore Richard Maibum e il regista (ex montatore) Peter Hunt. In Al servizio segreto di Sua Maestà, Sean Connery non c’è.
Stanco di un ruolo totalizzante e consapevole sia del trascorrere del tempo che delle proprie capacità altrimenti utilizzabili sullo schermo, il primo 007 abbandona temporaneamente la nave. Viene sostituito con George Lazenby, fotomodello australiano che si distinguerà poi in alcuni film di kung fu di Hong Kong (Il drago di Hong Kong) e in un paio di ottimi thrilling italiani (Chi l’ha vista morire?) e che, considerato a distanza di anni, fisicamente non era poi malaccio. Di certo non aveva il carisma di Connery né Terence Young a fargli da pigmalione.
Con Dian Rigg furono scintille, lei non voleva baciarlo perché... sapeva di aglio... ma forse è una leggenda che, come tale, è emblematica di un senso di disagio reale che aleggiava sul set.
Il problema vero fu che, al pubblico, venne chiesto troppo tutto in una volta.
Servizio segreto era un film anomalo, come lo fu Dalla Russia con amore, che però aveva una maggior aderenza al modello. Qui invece oltre ad avere praticamente un’unica ambientazione preponderante (quella nelle nevi, molto suggestiva ma sinceramente un po’ ripetitiva nella seconda parte) c’è il già citato cambiamento di volto del protagonista, che in più si sposava e, nella prima parte della vicenda, sembrava più impegnato in una commedia sentimentale che in una missione di spionaggio.
«Non era mai successo a quello di prima», dice il nuovo Bond al termine della sequenza che precede i titoli di testa. Sì, e forse per il grande pubblico era davvero troppo. È pur vero che la trama è ben svolta e gli incontri tra Bond e Tracy sono alternati a sequenze d’azione e di pestaggio che dovrebbero virilizzare la vicenda e il suo protagonista. Gli avvenimenti s’inanellano e la vera sequenza sentimentale è magnificamente racchiusa in un medley di scene in cui i due non parlano ma amoreggiano sulle note della famosa canzone di Louis Armstrong.
Anche così però lo spettatore si sente defraudato, è venuto per vedere un Kiss Kiss Bang Bang per riassumere la formula in maniera hip, e si ritrova con una vicenda che pare appartenere a un’altra serie. Persino tutta l’indagine legata all’araldica, il travestimento di Bond in un baronetto che le donne ritengono superficialmente gay e la bella sequenza negli studi dell’avvocato a Berna (quella in cui 007 si frega il paginone centrale di Playboy... mah...) sembrano un po’ fuori registro rispetto alle abituali scazzottate e indagini del servizio segreto. Lazenby ce la mette tutta, le scenografie in Portogallo e in Svizzera sono ottime così come le sequenze di sci di Willy Bogner.
Evidentemente la ripetizione della formula vincente ha avuto un effetto mesmerizzante per il pubblico. Non siamo ancora agli anni ’70 e al cambiamento di gusto nel cinema d’azione. Un peccato perché il film, come il libro, è gradevolissimo e acquista valore ogni volta che lo si rivede, staccandolo dal contesto della serie.
Il cast era perfetto. Blofeld trova in Telly Savalas un interprete più “fisico” di Donald Pleasance anche se, curiosamente, non riconosce subito Bond pur avendolo incontrato nel precedente episodio. Poi c’è Diana Rigg che furoreggiava in Agente Speciale e introduce la signora Bond, unica donna veramente amata dall’agente più desiderato del mondo. In fin dei conti la sua ombra si proietterà con maggiore efficacia nei successivi episodi. Gabriele Ferzetti è un efficace capo dell’Unione Corsa e tanti altri caratteristi, compresi gli abituali interpreti della serie, fanno il loro lavoro.
Il film è circolato per anni in passaggi televisivi e in VHS in una versione ridotta che lo mortifica proprio nella sequenza di spionaggio puro a Berna rendendo ancor più stridente il contrasto tra la prima e la seconda parte. Fortunatamente la versione lunga restaura anche alcune sequenze con l’agente inglese di supporto - poi ucciso da Blofeld - che non erano presenti neanche nella versione che vidi al cinema.
Cosa non ha funzionato veramente? Nulla, se non un’eccessiva lunghezza con quell’inseguimento in macchina nel rally sul ghiaccio che semplicemente allunga il brodo. Certo, le scene di combattimento accelerate sono bruttine ma, per il resto, è un film godibile. Dimostrazione che una serie troppo ripetitivamente proposta non si può più cambiare a meno di creare un completo reboot come è successo negli ultimi anni.
Ma la “rivoluzione Craig” avviene dopo quarant’anni e innumerevoli interpeti più o meno riusciti. Ai tempi, a confronto con i primi cinque Bond, era troppo stridente.
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