Sarà la Ville lumière, ma Parigi ha angoli d’ombra. Non quelli turistici di Saint Germain, Montmartre e Montparnasse. Bisogna cercarli dietro la giovialità un po’ ostentata dell’ultima grande potenza coloniale rimasta sul pianeta. Perché Parigi non ha mai rinunciato ai suoi possedimenti d’oltremare. Da Napoleone a De Gaulle, per finire con Sarkozy, la leadership francese ha in comune un obiettivo: assicurare al Paese l’indipendenza nel campo internazionale e la supremazia diplomatica come base della grandeur. Materia preziosa nei circoli dello spionaggio. Quello francese, non di rado, ha seguito direzioni tutte proprie, in dissonanza con gli alleati occidentali. Ecco dunque la terza capitale delle spie.
A Parigi, i veri palazzi del potere non sono quelli sotto gli occhi di tutti. Alcune decisioni importanti in politica estera passano dall’Eliseo al 128 di Boulevard Mortier, nella zona nord-est di Parigi, XX arrondissement. Lì c’è un brutto edificio di 10 piani, che in precedenza era una caserma. Si affaccia su Rue Tourelle, accanto alla grande piscina comunale, ed è detto per questo La Piscine. Ma gli addetti ai lavori lo soprannominano Le Service, La Centrale, La Maison, o solo Boulevard Mortier. È il quartier generale della DGSE, Direction Générale à la Sécurité Extérieure, massimo organismo d’intelligence francese. Conobbe il suo massimo splendore dal 1970 al 1981, sotto la direzione del conte Alexandre de Marenches, che lo definiva le mille-feuilles, il millefoglie, perché un servizio segreto, come quel dolce di pasta frolla, è fatto di mille strati sovrapposti.
Questa prima galleria serve a ribadire che Parigi fonda la tradizione di intelligence nella propria politica espansionista, mai piegata alle ragioni dello stesso schieramento occidentale. Lo dimostra il concetto di grandeur propugnato da De Gaulle, che volle l’uscita della Francia dal comando militare della NATO nel 1966 e lo sviluppo di una force de frappe nucleare autonoma.
Sono, comunque, le premesse più recenti per uno sguardo alla ricaduta spionistica su Parigi. Il culto di una supremazia culturale prima ancora che territoriale, precede la parabola di Napoleone. Richiama, forse, la valorosa ed ostinata riluttanza dei Galli nell’arrendersi a Cesare. Atteggiamento storicamente accertato, che conferisce credibilità ad Asterix, di Goscinny e Uderzo.
Perfino dietro la mitica versione televisiva di Belfagor, dal romanzo di Arthur Bernède, si nasconde una caccia disperata a risorse energetiche essenziali nella lotta fra le grandi potenze. Analogamente accade in un altro sceneggiato francese di culto degli anni ’60, I compagni di Baal, dove l’equivalente contemporaneo del Graal è l’oricalco, un minerale che si pensava di sfruttare per la tecnologia bellica.
E Parigi restava il centro operativo di tutta la rete antinazista. Nella quale spesso finivano per impigliarsi le beghe fra i servizi segreti alleati. Specie i due competitori inglesi, il SOE, Special Operations Executive, dedito ai sabotaggi, ed il SIS, Secret Intelligence Service, o MI6, che puntava sulla raccolta delle informazioni.
Snobismo da londinese dei club? Forse. O amarezza profetica di una globalizzazione che appiattisce anche le scenografie più spettacolari. Del resto, la Parigi di dopo avrebbe conosciuto come Londra l’impatto crudele dei nuovi intrighi internazionali, a base di bombe nella metropolitana e periodici allarmi terroristici sulla Torre Eiffel.
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