La Guerra Fredda è finita da ventitré anni. Quella delle spie è stata un’epopea parallela nella partita geopolitica. Viaggiavano in incognito, con appuntamenti a rischio nelle città deputate dei loro traffici. Per un itinerario da appassionati, si propongono quattro capitali europee che sembrano ideali per le operazioni segrete, vere e fittizie. A partire da Berlino, dove un tempo sorgeva il Muro. Proseguendo poi per Londra, dato che gli inglesi detengono storicamente il primato dell’intelligence. Quindi la Parigi decisa a non abbandonare le ambizioni colonialiste. Infine Vienna, crocevia cosmopolita, anche oggi che l’impero asburgico si è infranto. Sarà un viaggio dalle prospettive che le agenzie turistiche non suggeriscono.
Nella notte fra il 12 ed il 13 agosto 1961, cominciò la costruzione del Muro di Berlino. Solamente filo spinato, sembrava. Ma dal 15 agosto si videro già le prime componenti di pietra e cemento armato di quello che Horst Sindermann, eminente politico della Repubblica Democratica Tedesca, definì antifaschistischer Schutzwall, barriera di protezione antifascista. Il mondo si ritrovava con una linea di separazione tracciata a Berlino. Inevitabile che la prima tappa del viaggio fra le località delle spie sia la capitale tedesca, dove il conflitto fra le grandi potenze divenne un’epica senza eroi, perché a quelli che operarono nell’ombra, da un lato e dall’altro, non restò che il proprio sacrificio.
STATE LASCIANDO IL SETTORE AMERICANO, avvertiva una scritta in inglese, russo, francese e sotto in tedesco, a caratteri molto più piccoli, come se fosse la lingua meno importante. Era il Checkpoint Charlie, il principale punto di passaggio attraverso il muro, nella Friedrichstrasse, a Berlino. Quando il portale fu rimosso, il 22 giugno 1990, la città e la Germania furono finalmente restituite a se stesse.
L’incubo era cominciato nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, quando Ulbricht e Honecker ordinarono la costruzione del Muro, Die Mauer, 46 chilometri di barriera che attraversavano anche la coscienza dei tedeschi. Molto prima anche del Luftbrücke, il ponte aereo dal 26 giugno 1948 al 31 ottobre 1949, dopo che Stalin decretò l’isolamento di Berlino. Da molto più indietro veniva la stagione del freddo e dell’inquietudine per “la città degli uccelli”, come la definisce il giornalista Otto Friedrich per le numerose varietà di volatili che si affollano sugli alberi dei suoi viali, soprattutto l’Unter den Linden. Gli stessi nazisti, ed Hitler in particolare, volevano farla pagare a Berlino. La città aveva una tradizione cosmopolita, non teutonica, la meta di chi voleva scoprire il cuore dell’occidente, un coagulo multiculturale. Hitler la paragonava a Babilonia. Il che non gli impedì di restarne affascinato quando vi si insidiò da vincitore delle elezioni il 30 gennaio 1933. In seguito, l’avrebbe fatta forgiare come una capitale titanica dall’architettura di Albert Speer, e ad opera ultimata doveva chiamarsi Germania.
Sul nazismo ricade la responsabilità di aver distrutto la Berlino dell’epoca dorata fra le due guerre. Il cui simbolo era l’Hotel Adlon. Non un albergo, ma un mito. Situato al nº 1 dell’Unter den Linden, all’incrocio con la Wilhelmstrasse, di fronte all’ambasciata inglese, fu al centro di un’autentica epopea di mondanità, splendore, romanticismo, nonché di intrighi politici, diplomatici e spionistici. La famiglia dei proprietari era di discendenza vallone, il che spiega il cognome dal suono più francesizzante. Il costruttore, Lorenz Adlon, era figlio di un artigiano nativo di Mainz. Giunto a fraternizzare con il bel mondo di fine Ottocento attraverso una trafila di successi sportivi, pensò bene di sfruttare gli agganci per entrare nel giro delle ristorazioni. Di qui l’idea grandiosa di costruire il più bell’albergo d’Europa a Berlino, che Lorenz Adlon riteneva destinata a divenire una Weltstadt, metropoli cosmopolita. L’Hotel Adlon costò venti milioni di marchi dell’epoca, ottenuti con la personale garanzia del Kaiser Guglielmo II, informato dall’inizio del progetto ed immediatamente entusiasta. Tanto che lo inaugurò di persona nel tardo pomeriggio del 23 ottobre 1907. Il primo chef dell’albergo fu nientemeno che il leggendario Escoffier, il francese definito da Guglielmo II il re dei cuochi.
Le fiamme attaccarono la splendida facciata dell’Adlon il 30 aprile del 1945, mentre Hitler si suicidava nel bunker della cancelleria. Per sette anni, dell’Hotel non rimasero che rovine, poi, nel 1952, la definitiva demolizione.
Berlino risorge dalle ceneri del 1945 in forme crepuscolari e decadenti, forse per questo ancora più affascinanti. Diviene l’Agentenfunk, l’antenna degli agenti segreti. O meglio, la “palude delle spie”, in bilico tra due universi che non comunicano se non con la guerra sotterranea. A volte letteralmente. Con l’Operazione Gold, varata da americani ed inglesi nel 1953, fu scavato un tunnel attraverso il sottosuolo della città, da ovest a est, per intercettare il traffico telefonico dei sovietici occupanti. Celebrato all’inizio come un trionfo, subì innanzi tutto ostacoli interni dovuti alla rivalità CIA-SIS. Il romanzo Lettera a Berlino, di Ian McEwan, esemplare ricostruzione della vicenda, si apre con un funzionario dei servizi segreti britannici che recrimina: «Qui il vero problema non sono i russi, ma gli americani».
L’Operazione Gold nasceva già tradita da George Blake, agente del KGB infiltrato nelle file inglesi. Le informazioni raccolte durante l’attivazione del tunnel erano “mangime” servito a Londra e Washington dai maestri spioni della Lubjanka.
John le Carré inizia La spia che venne dal freddo con un’attesa al passaggio tra le due Berlino. Il suo protagonista, Alec Leamas, spera nell’arrivo di un uomo dalla zona est, che gli porta materiale importante. Lui finalmente viene, ma lo falciano i Vopos, le guardie confinarie appostate sulle torrette del muro. Un fallimento per il britannico, come ai tempi del tunnel. Ma si tratta di un’abile impostura per ingannare i sovietici e indurli a reclutare Leamas.
Il soprannome della Germania della ricostruzione e del miracolo economico era Mercedeslandia. Un rombante Regno di Oz su quattro ruote. Fatto anche di Volkswagen, BMW, Porsche e transatlantici americani da strada che si chiamavano Thunderbird, Cadillac e Studebaker. Ma la stella a tre punte del marchio Mercedes era l’onnipresente simbolo benigno dei nuovi tempi. Occhieggiava dappertutto come la svastica durante il Terzo Reich.
Sono i luoghi di Funerale a Berlino, di Len Deighton, dove il traffico di esseri umani tra le due zone della città corrisponde a quello dei cervelli e delle spie. Un manuale dell’odio e dell’opportunismo strategico che non si arrestava neanche dinanzi all’uso cinico dei sentimenti come armi di attacco al cuore delle diplomazie. Lo sapevano le spaate Madchen, zitelle annoiate, quasi sempre in posizioni prioritarie negli organismi di sicurezza a Berlino Ovest, sedotte da qualche vóron, corvo, uno stallone del KGB. Che aveva l’equivalente in gonnella, detta lástocka, rondine, o koshka, colomba.
Se andava bene, nella Berlino del Muro, il viaggio della spia si concludeva all’aeroporto da cui partiva un atteso aereo per l’Occidente. In caso contrario, si finiva nelle prigioni della Stasi. Per i più fortunati, era in serbo uno scambio all’alba, sul Glienickebrücke, il ponte delle spie. Da un lato avanzava chi si era prestato ai giochi di Mosca, dall’altro l’avversario alleato.
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