C’è un gran discutere da tempo su chi abbia il merito di aver dato inizio alla nobile arte dell’indagare a scopo di letterario godimento. Insomma su chi abbia inventato il mystery, il detective novel, il noir. Insomma ancora il giallo.
Ora, tralasciando l’opinione degli arcaicizzanti, che vedono addirittura nell’Edipo Re il primo vagito del genere, o degli anglisti esasperati che ritrovano nelle infamie di Riccardo III o nelle corna di Otello il primo vagito del noir, in genere la palma del primato si disputa tra il Wilkie Collins della La pietra di Luna, e il funereo Edgar Allan Poe, gentiluomo sudista un po’ retrò, jngle poet ubriacone e dandy, necrofilo sadomasochista, genio fantasioso e (in vita) misconosciuto.
Se poi aggiungiamo che Edgar è l’autore del celeberrimo I delitti della Rue Morgue, e il creatore dell’idiosincratico Dupin, che gli dava dentro con il laudano e che morì in circostanze misteriose, è facile che la nostra fantasia si ecciti e corra ad assegnare la coppa senza aspettare altro. Il che, in definitiva, è anche giusto. Lo fanno quasi tutti. E poi siamo nel 1841, Collins arriverà solo nel ’68.
Quindi Poe è il primo. Anche H.P. Lovecraft era convinto che il genere nascesse con i suoi racconti “di raziocinio”. Bene, è vero. È lui che comincia. Ma non perché ha inventato Dupin.
Poe è stato, a modo suo, anche un investigatore reale, che si è confrontato davvero con enigmi reali. Lo ha fatto nel Mistero di Marie Roget, una specie di inchiesta romanzata su un vero delitto dell’epoca. Però lo aveva fatto ancor prima, nel 1836, in modo ancor più suggestivo, risolvendo un enigma che aveva appassionato tutta Europa per più di mezzo secolo.
Tra gli scritti di Poe c’è un articolo, meno conosciuto della trilogia dupiniana, cui forse non si è prestata la doverosa attenzione. Un gioiellino di acume e di detection, applicata questa volta non a un plot costruito per l’occasione (e quindi necessariamente artato, come i fondali di cartapesta dei teatri delle marionette) ma invece volta a sminuzzare un segreto vero: quello del misterioso giocatore di scacchi di Maelzel.
Quella per i misteri veri era una vera e propria passione di Poe: al punto da inventarne lui stesso e di farne una sorta di rubrica fissa di sfida ai lettori sulle pagine del Southern Literary Messenger con cui collaborava. L’ultimo è stato risolto - pare - solo pochi anni fa, dopo una disputa durata oltre un secolo e mezzo.
È curioso come nella sua fantasia infiammata dall’alcol si nascondesse invece un profondo desiderio di ordine e razionalità. Che è in genere la reazione di tutti quelli che si sentono vacillare il terreno sotto i piedi. Probabilmente era il suo senso di inadeguatezza rispetto alla classe altoborghese in cui cercava di inserirsi per meriti culturali, lui che nonostante la ripulitura datagli dall’adozione degli Allan continuò sempre a ricordare con amore e orrore i veri genitori: attori entrambi, lui alcolizzato e lei bellissima e tisica all’ultimo stadio. Ma adesso sto divagando, se interessati alla devastazione edipica di Edgar semmai andate a leggervi il saggio di Marie Bonaparte su di lui, che vi spiega tutto.
Eravamo rimasti al giocatore di scacchi. Visto il carattere di Poe non è sorprendente che si incuriosisse del gioco più geometrico e disumano che esista, cui solo la ben nota perfidia orientale può aver dato vita. Ma nel caso del giocatore di Maelzel, guarda caso per l’appunto un Turco, a Poe non interessano le performances, quanto ancora una volta l’enigma.
Perché il giocatore di Maelzel un enigma lo è davvero. Immaginatevi un manichino di cartapesta, di quelli che sonnecchiavano un po’ sinistri nelle vetrine dei sarti qualche decina di anni fa, prima che arrivassero i nuovi androidi di plastica. Con gli occhietti di vetro da vittima dell’imbalsamatore, pomelli e labbra sbaffati di rosso e le ciglia dipinte ad una ad una sulle orbite. Rivestito di fluenti vesti turchesche, con tanto di turbante con la piuma, il nostro simulacro se ne sta seduto dietro una specie di scrivania di legno, piena zeppa di molle, ingranaggi, catene e bilancieri, tutto perfettamente visibile attraverso dei grandi sportelli che all’occorrenza vengono aperti per tacitare i dubbiosi.
Il Turco insomma è una sorta di orologio. È una macchina, al di là di ogni ragionevole dubbio, un automa. E fa tutto quello che fa un solerte automa del Settecento (è nato nel 1769): muove gli occhi e agita la testa, solleva un braccio, simula qualche buona pipata dal lungo cannello che tiene sulla scrivania. Ma poi fa qualcos’altro, gioca a scacchi. E questo è straordinario.
Perché tutti i bravi costruttori di automi, dal grande Vaucanson in avanti, non hanno mai ardito andare oltre l’imitazione della fisiologia di base, vuoi per un timoroso ritegno di violare le terre riservate a pascolo dell’anima, vuoi per le difficoltà oggettive di far fare a della ferraglia impagliata qualcosa di più che saltellare in giro o strimpellare un motivetto al piano.
L’idea di una macchina che possa pensare è puro sogno di materialisti ossessivi, ma nemmeno la calcolatrice di Babbage, allora il top dello stato dell’arte, pensava alcunché. Invece il Turco pensa, e pensa tanto bene che sconfigge via via tutti i temerari che osano sfidarlo in quelle pubbliche giocate cui il suo proprietario Maelzel, una sorta di P.T. Barnum ante litteram, lo sottopone notte dopo notte e città dopo città. Sconfigge Benjamin Franklin, il grande Federico di Prussia. Le suona anche a Napoleone, che evidentemente presago della sconfitta gli chiede una seduta privata al castello di Schönbrunn, al riparo dal rischio di lazzi. Partita da cui è leggenda che l’Empereur fugga via rovesciando a terra la scacchiera, per la stizza di essere stato battuto da un cocktail di paglia e ingranaggi.
Nessuno sa se sia vero, naturalmente, ma è un’altra perla di quella collana leggendaria che sta accompagnando il suo tour. Un giro trionfale che lo porta, esaurite le piazze europee, a sbarcare finalmente in America.
Dove appunto una sera lo incontra il nostro amico Poe. Che non è un giocatore, ma è un genio. E quel Turco impossibile costituisce per lui una sfida che va ben al di là di una partita a scacchi. Lui, l’uomo che vive in un universo turbato dalla follia e dall’orrore, non può accettare che anche il mondo reale si squinterni, che le macchine vivano. È allora che nasce la vera detective story, cinque anni prima che un improvvido scimmione vada a massacrare due donne nell’eponima rue Morgue: la notte in cui Poe, al lume della candela, fissa il Turco nei suoi occhi di vetro, per carpirne i segreti con l’uso di quella logica cartesiana che per lui, sempre sull’orlo di sprofondare nell’abisso, è la sola ancora che lo trattenga di qua dalla Paura.
Forse non è nemmeno tanto importante scoprire come funzioni l’automa, alla fine. Svelare come fa Edgar che dentro il cassone, al riparo di un algoritmo di mosse e scivolate che lo cela alla vista, si nasconde un umanissimo campione del gioco. Quanto dimostrare che le leggi di natura non sono violate, che nessuna macchina può davvero sconfiggerci, che la morte è ancora lontana. Questo cerca di dirci Poe nel suo articolo, con l’accanimento un po’ maniacale e borioso degli “a me non la si fa” che infestano ogni spettacolo di sano illusionismo, e faranno le fortune di tanti scrittori di assassini nelle ville in campagna e delle tisane avvelenate.
Ma quelli sono gialli che verranno. Intanto, mentre gli altri spettatori se ne stanno là a bocca aperta a dire ohibò, lui prende la penna e dopo aver fatto il pieno nella taverna sulla strada si getta come ogni notte alla scrivania e compone Il Giocatore di scacchi di Maelzel. Ci spiega come funziona. Ci spiega cosa non hanno capito gli altri. Ci dimostra che se fosse un vero automa sarebbe un insulto contro natura. Sarebbe un delitto. Ci spiega come si affronta un delitto. Come si racconta.
Insomma comincia, come avevamo detto.
(à suivre)
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