Non tutti sanno che il più grande autori di gialli francese è in realtà il belga Georges Simenon, nato a Liegi, ma ben presto trasferitosi in Francia e da quel paese adottato in via definitiva.
Anche l’autore di cui ci occupiamo questa volta è belga, è nato anche lui a Liegi nel 1908 e, dopo un’onorata carriera di romanziere (non solo di polizieschi), è morto nel 1970. Di lui in Italia recentemente non è uscito quasi nulla perché, pur essendo negli anni Trenta una firma prestigiosa nel campo del “giallo-enigma”, l’oblio ha condannato la sua produzione come quella di molti autori dell’Età dell’Oro del poliziesco.
Il patto dei sei esemplifica in modo quasi didattico sia il favore del pubblico per questo sottogenere settant’anni fa sia l’indifferenza di editori e pubblico nei suoi confronti oggi.
In una città che da qualche vago indizio potremmo riconoscere come Parigi si danno un appuntamento sei amici che cinque anni prima si sono lasciati con la promessa di far fortuna e poi di ritrovarsi per dividere il “tesoro” con gli altri: purtroppo a uno a uno vengono uccisi da un misterioso nemico che solo il colpo di scena finale (che vi risparmiamo perché forse è l’unico motivo per leggere il romanzo) saprà rivelare.
L’atmosfera claustrofobica ricorda quella di Dieci piccoli indiani della Christie anche se bisogna sottolineare, per onestà, che questo romanzo precede di qualche anno il ben più famoso giallo dell’autrice inglese; la quasi totale assenza di elementi ambientali, che non siano strettamente funzionali all’intreccio, porta alle estreme conseguenze i sacri canoni del “giallo-enigma”; la psicologia dei personaggi, compresa quella della donna fatale Asuncion, non è molto curata e si affida a poche notazioni di maniera.
Il detective, infine, ha tutte le carte in regola per ben figurare nella galleria di improbabili personaggi che popolano il giallo di quegli anni: già dal nome, l’ispettore Wenceslas Vorobeitchik (indicato spesso, per nostra fortuna, col diminutivo di Wens) si qualifica come uomo fuori dal comune, aggiungendo, di suo, una straordinaria altezza, un’eleganza naturale e una fronte altissima, accentuata dall’incipiente calvizie nonostante sia poco più che trentenne.
Wens parla con gli indagati, lascia ammazzare senza colpo ferire alcuni componenti del gruppo dei sei, ma alla fine, come un prestigiatore, tira fuori dal cappello l’immancabile soluzione con il corredo della tradizionale spiegazione finale.
Il prodotto però non convince: proprio perché si propone come una diligente esercitazione sui canoni ormai codificati del “giallo-enigma”, ne conserva tutte le insopportabili astruserie, le inverosimiglianze psicologiche e quell’atmosfera asfittica e atemporale che rende il romanzo quasi illeggibile ai giorni nostri; all’autore (e al lettore dell’epoca) non interessava tanto l’avventura umana dei sei (ricreata anzi con toni favolistici nelle loro scorribande per il mondo) quanto il meccanismo a orologeria che presiedeva all’eliminazione degli amici. Una sfida enigmistica al lettore, insomma, trasformata in un romanzo.
Il rispetto che abbiamo che per l’infanzia del giallo internazionale (e per il nostro primo amore, il “giallo-enigma”, appunto) ci impedisce di infierire: ma risulta chiaro a chiunque l’enorme divario che esiste tra Stanislas-André Steeman e il suo conterraneo e collega Simenon; non tanto sul piano dell’intreccio (ché anche alcune avventure di Maigret, lette oggi, sotto il profilo della detection sono assai manchevoli), ma su quello propriamente letterario.
A ennesima dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che il giallo non va giudicato (ed eventualmente condannato) astrattamente, perché ogni genere è di per sé neutrale; è al suo interno invece che si stratifica la produzione alta, artigianale e infine quella industriale: e Steeman, nella più benevola delle ipotesi, si può inserire al massimo nella seconda fascia.
Voto: 5
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