Un panda è pronto a conquistare il mondo dall’alto dell’Empire State Building! Questo il logo della quattordicesima edizione del Far East Film Festival di Udine, tenutosi dal 20 al 28 aprile. Fra gli eventi che hanno caratterizzato quest’edizione, spiccano The Darkest Decade, retrospettiva dedicata ai registi coreani degli anni ’70 (uno dei periodi più grigi e apparentemente improduttivi della storia del cinema coreano per via della forte censura e del decadimento della settima arte a favore della televisione), e il Fresh Wave, piccola vetrina sui corto/mediometraggi dei giovani talenti hongkonghesi, presentati da Johnny To e selezionati dal Festival Internazionale dei Cortometraggi che porta appunto il nome di Fresh Wave, organizzato dall’Hong Kong Arts Development Council. A Johnny To, che compiva 57 anni proprio durante la settimana del FEFF udinese, è stato inoltre consegnato il Gelso d’Oro alla carriera in occasione della proiezione della sua ultima commedia, Romancing in Thin Air. Una carriera costellata di numerose pellicole, cinquanta come regista e ben cento nel complesso prodotte dalla Milky Way. In occasione del premio alla carriera, To ha dichiarato che il FEFF “è un piccolo pulcino, che va protetto e curato” – un po’ come il panda che troneggiava sui manifesti del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
Tra i film presenti quest’anno, molte come sempre le commedie, dall’evento in anteprima mondiale Thermae Romae di Takeuchi Hideki, tratto dall’omonimo fumetto di Yamazaki Mari e divertente nel suo prendersi gioco degli stereotipi sulla bellezza maschile e sui giapponesi, chiamati dal protagonista romano “il popolo dal volto piatto”, al cinese Love is Not Blind di Teng Huatao, deliziosa commedia romantica sull’amore infranto e sullo scontro fra i sessi, argomento su cui ormai i nuovi cineasti cinesi riflettono da tempo ma che raramente è trattato con altrettanta leggerezza senza scadere nel banale; oppure, ancora dal Giappone, la buffa storia al femminile firmata Ogigami Naoko chiamata Rent a Cat, forse non pienamente riuscita nelle sue derive sentimentali che cercano di affrontare il passato dell’affittagatti ma anche nel voler a tutti i costi ripetere lo stesso stilema di domande e convenevoli da un cliente all’altro. Molto banale e patinato appare il film taiwanese di punta di quest’anno, You Are the Apple of My Eye, prodotto dalla Sony Music, scritto e diretto da Giddens, personaggio molto noto a Taiwan soprattutto come songwriter: questa storia (per sua stessa ammissione autobiografica) di amicizia e crescita di alcuni adolescenti fra i banchi di scuola scivola via senza grandi emozioni, con il solito protagonista sbruffone e svogliato che s’innamora della secchiona della classe che, inutile dirlo, è bellissima e ricambia il suo sentimento, anche se è apprezzabile da parte del regista il non voler piegare i ricordi e la logica della narrazione a un happy ending forzato. Deludenti anche i film hongkonghesi presenti (o almeno, quelli da me visionati): il noir Nightfall di Roy Chow, nonostante il sempre bravissimo Nick Cheung con la sua recitazione intensa e lo sguardo magnetico riesca a dare spessore a un personaggio scontato e inconsistente, ha un sapore di déjà vu troppo forte per non far rimpiangere le opere del pre-handover, dove nessuna concessione allo spettatore né logiche di vendita mainland o internazionali sporcavano il modo di fare cinema degli autori. Viene da chiedersi perché continuino a fare film tutti uguali e privi di emozione, se non per ossequiare il dio Denaro. Indifendibile anche il film di Jeff Lau, East Meets West 2011, un pastrocchio senza capo né coda che non ricorda nulla delle opere a loro modo geniali che il regista ci ha regalato in passato, come Eagle Shooting Heroes o A Chinese Odissey (sia quello del 1994 in due parti che quello del 2002): dove sono finite l’ironia, la follia, il passare con inventiva da un registro stilistico all’altro senza mai sbagliare un colpo né appesantire la storia? Decisamente il cinema di Hong Kong sembra in crisi, fra il genuflettersi alle richieste della Mainland verso un piatto intrattenimento “pansinico” globale e la vana riproposta di formule anni ’80-’90 che non riescono ad avere più la presa di allora, forse perché i tempi sono cambiati o, più semplicemente, perché la nostra suspension of disbelief è ormai logora e avremmo bisogno di altro… ma forse i giovani del Fresh Wave potrebbero dargli nuova linfa.
Notevoli, infine, alcuni dei film coreani della retrospettiva di cui si parlava all’inizio: Iodo di Kim Ki-young e Pollen di Ha Kil-chong, in particolare, ci proiettano in mondi torbidi e oscuri dalle venature orrorifiche e perturbanti. Storie con contenuti veri, non fatte per stupire o guadagnare denaro ma per riflettere e regalarci uno spaccato di vita e di riflessione, ancora una volta nei rapporti fra i sessi ma anche fra i vari strati sociali, che tanto ci fanno rimpiangere il cinema del passato o almeno ci fanno esclamare che, decisamente, negli anni ’70 si facevano film di tutt’altro spessore perché vivi dentro, e pieni di sottili analisi del reale. Perché questo, a mio avviso, è il vero animale in estinzione da salvare: l’abitudine a riflettere, la visionarietà, magari fatta con leggerezza per abbracciare più persone possibili perché arte global-popolare vuol dire anche questo. Un nodo da cui partire per sciogliere il grande caos autodistruttivo in cui il mondo contemporaneo nuota, intrappolato com’è dalla logica capitalista che fagocita e velocizza tutto, anche le emozioni e la voglia di creare qualcosa che lasci traccia nella mente, non solo soldi nel portafoglio di chi l’ha ideata.
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