Si prende una serie poliziesca statunitense, Line of Fire, che la stampa specializzata presenta come osannata dalla critica d’Oltreoceano, ma che in realtà è stata chiusa per bassi indici di ascolto dopo appena 13 episodi, andati in onda tra l’inverno 2003 e la primavera 2004, di cui gli ultimi due neppure trasmessi (l’ultimo, non si sa perché, è stato trasmesso solo in Nuova Zelanda). La si programma in un periodo poco appetibile dai maghi della pubblicità (dal 5 giugno in poi, al di fuori del cosiddetto “periodo di garanzia”), la domenica in prima serata (notoriamente una delle peggiori scelte – dopo il sabato – con l’estate che si avvicina) e su La7 (network di nicchia, ma molto di nicchia). E tanto per mettere bene in chiaro le cose, subito tre episodi l’uno dietro l’altro, che non seguono neppure la programmazione originale statunitense (vanno infatti in onda il primo, il “pilot” cioè, il terzo e il quarto) e che in italiano perdono addirittura il titolo.
A questo punto la frittata è fatta.
Poco importa che il cast degli attori sia di livello dignitoso, anche se il loro curriculum oscilla pericolosamente fra tv e cinema (Leslie Hope, che qui veste i panni della detective Lisa Cohen, è stata tra l’altro apprezzata anche in serie tv come Chicago Hope e 24); che la serie sia ambientata a Richmond, in Virginia, e veda la lotta senza quartiere (montata in parallelo) tra il boss ebreo Jonah Malloy con la passione per il baseball e la già citata, ebrea anch’essa, Lisa Cohen, dirigente di una squadra anticrimine dell’F.B.I.; e che gli episodi alternino sapientemente (per il palato americano) molta azione (un agente federale muore già nelle prime inquadrature), un bel po’ di violenza (dita mozzate, martellate sulle mani etc.) e qualche spruzzata di sesso molto soft (l’agente infiltrata Paige Van Doren – l’attrice Leslie Bibb già apparsa in E.R. – deve fingere di sedurre un giudice corrotto, ma rimane castamente in reggiseno), più pensato che agito in verità (un’occhiata assassina in un bar tra la Cohen e una cliente lascia solo presagire qualcosa di torbido).
Le novità, in verità non tutte di grandissimo appeal, si perdono così nella calda notte estiva italiana: chi riuscirà a seguire i prossimi episodi palpitando per il bello e aitante Roy Ravelle, scagnozzo del boss, ma in realtà un superagente F.B.I. infiltrato da anni? Chi accompagnerà con simpatia le prime mosse della Van Doren che si è votata all’investigazione federale per sconfiggere un giorno i terroristi, dopo che il marito, ufficiale di marina, è morto al Pentagono l’11 settembre (e questa è un po’ dura da digerire)? Chi infine riuscirà a provare un moto di umana simpatia per il boss ebreo (astutamente messo a confronto con la detective ebrea per evitare qualsiasi accusa di antisemitismo da parte delle potenti associazioni ebraiche) che smania pur di entrare nella società-bene di Richmond?
Ben pochi, temiamo.
Anche se, forse, qui in Italia saremmo stati più teneri verso una Lisa Cohen dura che più dura non si può (la vera donna che non deve chiedere mai che beve e fuma come un Marlowe qualsiasi, in barba al salutismo montante negli USA) e anche verso la maldestra allieva dell’Accademia di Quantico (benché faccia rimpiangere la sua collega, ben più intrigante, di Il silenzio degli innocenti).
Ma tant’è: quando si nasce sotto una cattiva stella…
Voto: 6
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