Hanno facce sprezzanti, i gesti insolenti. Ero ancora soprappensiero, altrimenti avrei cambiato marciapiede, avrei evitato di passare proprio qui davanti alla sala giochi.
Bruciano qui i loro pomeriggi, in questo spazio riempito dal fumo e dalle loro grida; con le tasche che si vuotano rapidamente, con gli stomaci sempre più attorcigliati da una rabbia senza nome né motivo. Quella rabbia non si può sopportarla a lungo, io la conosco, alla fine devi trovare un cesso dove vomitarla, svuotando lo stomaco e la testa, pronto a farteli riempire di nuovo della stessa schifezza. Di solito tocca a quei neri che passano con i loro fagotti di merci da spiaggia, beccarsi gli insulti, le spinte, le risate forzate e acide che vorrebbero la reazione, l’occasione di scaricare quella rabbia; ma stasera il cesso in cui vomitare sono io, che passo in mezzo a loro con la mia età insopportabile, con la mia faccia che sarà la loro, lo sanno, tra un po’ di anni. Forse questo ha da dimostrare qualcosa a qualcuno, forse deve solo liberarsi di un peso che gli chiude lo stomaco, so solo che si muove con finta casualità, che indietreggia i passi giusti per incrociare i miei, per farsi urtare. Scatta subito il ragazzo, mi urla in faccia il suo disprezzo, lo schifo che prova per la mia età, mi fissa aspettando che io reagisca o che me ne vada caricandomi le spalle delle loro risate. Io ho imparato come si fa a mettere paura, me lo ha insegnato la paura stessa, tutte le volte che l’ho provata; abbasso lo sguardo, ma faccio in modo di trascinarmi dietro il suo, lo porto a fissare la superficie nitida della lama che spunta dalla mia mano. L’acciaio manda incantevoli, freddi riflessi azzurrognoli; i suoi occhi rimangono lì per un istante, poi risalgono a incontrare i miei. Si volta verso i suoi amici, non risponde ai loro sguardi; solo chi era accanto a lui ha capito, mi guarda con occhi tornati al timore dell’infanzia. Mi muovo con lentezza, mi allontano senza fretta; la mano in tasca, chiude morbidamente il coltello.
Stavolta ho lasciato il mio tavolo d’angolo, ho lasciato il grembiule dentro la cucina e con la scura in mano sono andato dritto dalle due russe. Mi guardano sorprese, e sono ancora più sorprese dal sorriso e dal - ciao, posso sedermi? - che tiro fuori. Mi fanno posto e non lascio loro il tempo di riprendersi, chiedo subito di dove sono, di Minsk rispondono e non mi ricordo nemmeno dov’è. Dico due cose di me, il mio nome, poi ricomincio a chiedere di loro e le guardo. Provo a immaginarmele a letto, provo a pensare alla consistenza e al calore delle loro labbra, cerco di sentire la pressione dei corpi e la sensazione della pelle, ma è un’operazione a freddo, sto cercando di trovare un motivo, una ragione per riempire le parole sciatte e vuote che sto spendendo. Loro sono carine e cortesi, non so se per dovere professionale o per sincera spontaneità. Sento crescere la stanchezza come un’onda inarrestabile che mi spegne. Forse avrei dovuto evitare le parole, chiedere subito il loro prezzo, ma avrei dovuto sapere cosa voglio veramente ed è una domanda a cui non so rispondere. Piglio la scusa della cucina, del lavoro; un altro sorriso e il cenno alla cassiera che i loro bicchieri li pago io. Mi guadagno almeno un sorriso benevolo, libero dal fastidio di aver fatto perdere loro del tempo. Da dietro l’oblò sbircio un tizio che si avvicina lesto alle ragazze; è uno di quelli con la macchina grossa, vestito bene e con un bel sorriso. E’ andata anche questa e in un certo senso che abbiano trovato subito un cliente mi consola, che cosa buffa...
In cucina mi avvolge il suono concitato di parole sconosciute e urlate; Hassan e Mehemet si fronteggiano in mezzo alle macchine, uno proteso verso l’altro, i volti alterati dalla rabbia. Chissà perchè litigano; vedo Youssuf che cerca di farsi in mezzo ma lo fa senza convinzione, con timore piuttosto. Subito dopo capisco il perché; Hassan stringe in mano un coltello, di quelli buoni a disossare e il suo braccio, teso allo spasimo, sembra una molla che sta per scattare. Gli arrivo da dietro, e Hassan questo non se l’aspettava; riesco a fargli aprire le dita torcendogli il polso, poi butto il coltello lontano, a rimbombare in un lavandino. - Non voglio cazzate qua dentro… - dico fissandoli, mentre la sorpresa del mio intervento sta già spegnendo la furia. Hassan prova a dire qualcosa, ma non gliene lascio il tempo - Non so perché stavate litigando… non m’interessa. Pensate a questo piuttosto… Bruno ha venduto. Siamo tutti licenziati. Forse questo è più importante -. Ora il silenzio è devastante e ognuno dei tre si sceglie un angolo in cui andare a cacciare lo sguardo e i pensieri, credo affollati di permessi di soggiorno e letti in affitto da pagare.
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