Dalla finestra della cucina non si vede molto; un pezzo di spiaggia grigia e corta, arata dai piedi e dagli ombrelloni dei bagnanti, un paio di pattini colorati di bianco e rosso tra una scrostatura e l’altra, un pontile dai pali rinsecchiti e alti, quasi volessero evitare di dar fastidio alla sabbia e al mare verde torbido che li sciacqua pigramente. Girando lo sguardo si vedono le ultime dieci piazzole del parcheggio della birreria, cemento che degrada nella sabbia, sottili e lunghe strisce bianche che improvvisamente s’interrompono. Ci siamo quasi, alla fine della stagione; la spiaggia è già vuota a quest’ora di sera e anche in sala non ci sarà la solita confusione. Ho ancora qualche minuto di tranquillità; mi appoggio al forno per le patate ventilate e mi accendo una sigaretta. Arrivo sempre per primo, sono il capo cucina e mi piace che tutto vada liscio nella serata, così controllo che non manchi niente, che le macchine funzionino e che i ragazzi le abbiano pulite prima di andarsene la scorsa notte. Ne ho tre sotto di me, un egiziano e due marocchini. Brava gente che lavora parecchio e parla poco e per uno come me questo è un pregio; sono precisi e puliti, anche se i guanti da chirurgo li portano per non toccare direttamente le salsicce e la carne di maiale. Non è tanto grande la cucina, ma c’ha tutto quello che ci serve; è piastrellata di un grigio cenere chiaro chiaro, è un colore distante ma pulito, non mi rallegra né mi rattrista, ma io sono qui dentro per lavorare e basta...
Non ho solo il panorama del mare da sbirciare; un paio di oblò sulle porte della cucina mi mostrano quasi tutta la sala: le panche e i tavoli di legno scuro, le pareti coperte a metà dal tessuto verde chiaro costellato di specchi serigrafati con marchi di birra e finte stampe inglesi d’epoca. Poi ci sono i clienti, perlopiù giovani; il sabato sera fischiotti di vent’anni con macchine dai quindicimila euro in su e ragazzine in tiro che rispondono al cellulare ogni due minuti, in mezzo al frastuono dello stereo che scende dalle casse in alto sui muri. In altri giorni sono diversi i ragazzi, meno fasciati di soldi, più ingoffiti di pantaloni oversize e magliettoni; qualcuno capita addirittura con i genitori, piovuti qua dentro chissà come, spersi e imbarazzati, col desiderio di uscire al più presto disegnato sulla faccia. Li osservo tutti, provo ad immaginare come possa essere il resto della loro vita, il loro giorno, il loro lavoro se ce l’hanno, quello che dicono e pensano. Mi metto tutto davanti, la loro vita e la mia, che anche fuori di qui non conosce sbalzi, scarti, regolare nei suoi tempi certi e nel suo silenzio cercato, voluto, nella sua solitudine morbida e protettiva. Chissà cosa sarei riuscito a fare nella vita se solo non fossi rimasto chiuso in questo deserto di mare, ma per dimostrare le mie qualità sarei dovuto uscire allo scoperto e mettermi in gioco, rischiando di perdere, così mi accontento di questo piastrellato grigio cenere e della luce pulita del neon.
C’è un tavolo da due vicino alla porta della cucina, non lo prende mai nessuno, c’è troppa puzza di fritto e il fumo ristagna in quest’angolo di locale; questo è il mio tavolo. Tra le due e le tre, quando la birreria comincia a svuotarsi, mi ci siedo e mi apro una bottiglia di scura; bevo con calma e il gusto aspro s’impasta col fumo di un paio di sigarette. Intanto guardo la gente che c’è, senza dare fastidio, una piccola abitudine che Bruno, il proprietario, mi ha concesso, perché a quell’ora il più del lavoro è andato. Da un po’ di tempo fermo l’occhio su un paio di ragazze, sempre le stesse, che vengono quasi ogni sera. Sono giovani giovani e in pratica perfette; magre ma con le cose al posto giusto, una bionda e l’altra mora, infilate in minigonne o pantaloni troppo stretti. C’hanno visi regolari, l’espressione sfrontata, gli occhi che girano per la sala lanciando sfide ai maschiotti seduti a bere. Sono puttane lo so, ungheresi o russe, ma questo non lo so di preciso; finiscono la serata qui in cerca dell’ultimo cliente o forse per pulirsi la bocca e la mente col liquore. Una volta che le fissavo mi si è avvicinato Bruno. - Belle sventole eh?! - - Già - ho risposto, infastidito dal fatto che m’avesse pizzicato in quel modo. - Perché non vai a dirgli qualcosa? - - In maglietta e grembiule non è che sono così elegante - - Quante storie… vai lì e ci parli - . Ero sempre più infastidito, volevo troncare subito il discorso. - E’ che mi piacciono tutt’e due. Che gli dico se andiamo a letto in tre? - - Guarda che sono puttane. - disse Bruno ridendo sghembo - Gli chiedi quant’è e ti togli la voglia… -. Ci pensai un attimo, cercavo la risposta che chiudesse, poi dissi, fissando il posacenere - Troppo per le mie tasche - . La mano di Bruno mi batté sulla spalla - Un uomo se la deve concedere una pazzia ogni tanto. A risparmiarti non ci guadagni niente -. L’avevano capito che si parlava di loro, perché mi fissavano con quella faccia indisponente da puttane, che dovrebbe farti crescere la voglia, ma io in quegli occhi ci vedevo disprezzo e una risata, così me ne sono tornato in cucina.
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