«La tua patria, come la mia, è in Cielo» disse la völva. «Ma tu lascerai l’Islanda, viaggerai per tutto il mondo conosciuto.»
«Dunque devo partire, come i vichinghi?»
«Sì, ma non molto presto.»
«E sarò come Egill? Il mio nome sarà ricordato? Racconteranno le mie gesta, sarò l’eroe di una saga?»
«Per quante imprese tu compia, il tuo nome sarà dimenticato. Non devi aspettarti fama, ricchezze, onori e felicità. A te si chiede il sacrificio totale, anche dell’ambizione e della vanità. Il tuo percorso su questa terra, anche se luminoso, sarà oscurato. Sei stato tu, dentro di te, a fare la tua scelta. Tu non hai voluto l’ammirazione del mondo, ma l’amore. E conoscerai l’amore.»
«Amore? Io non sento nulla per nessuno. Dentro di me c’è il vuoto.»
«In quel vuoto c’è l’amore. Tu servirai umilmente l’amore, la luce del mondo, il papa della Vera Fede.»
Quello fu forse l’unico istante, da quando conosceva la völva, che Kveld dubitò di lei.
«Che cosa dici? Servirò il papa di mio padre? Il capo della Chiesa di Roma?»
«Io non so se il papa della Vera Fede sia il capo della Chiesa di tuo padre. So soltanto quello che so. La Chiesa d’Amore. La guerra per la Vera Fede. Combatterai una guerra aspra e senza pietà, che è cominciata molti e molti secoli e millenni fa, all’origine di tutte le cose create, e proseguirà per milioni di anni, fino a quando non ci ritroveremo tutti nello stesso Cielo. E anche se resterai sconosciuto, le generazioni future dovranno qualcosa al tuo sacrificio.»
«Morirò in questa guerra della Vera Fede?» chiese Kveld, in un soffio, mentre un brivido lo percorreva. Prima di sprofondare nell’oblio riuscì a udire la risposta.
«Andrai incontro a molte morti e rinascite nella tua vita.»
Erano trascorsi due anni dal giorno della prima morte di Kveld, e lui, fedele alla sua promessa, non era più tornato al villaggio.
Era rimasto sull’alto promontorio del fiordo, vicino al faro, insieme alla völva. Come e meglio di un figlio, aveva aiutato la vecchia donna a coltivare il poco che le occorreva per vivere, ed era andato a caccia e aveva ucciso alcune foche, per procurarsi provviste di carne e grasso. Ed era andato a pesca, e aveva conservato nel ghiaccio il salmone crudo, che era il cibo più diffuso fra gli islandesi.
La völva gli aveva insegnato la sua medicina, i poteri medicamentosi delle erbe e delle sue mani, che aggiustavano ossa fratturate, lenivano dolori, e talvolta guarivano per mezzo del loro fluido benefico. La völva conosceva i modi per non concepire e quelli per vincere la sterilità, sapeva combattere molte malattie ma, di fronte ai mali senza rimedio, invitava il malato ad accettare la sua sorte e lo aiutava ad accogliere la morte. Molte delle sue previsioni, però, erano dettate solo dalla saggezza e da una profonda esperienza della prevedibilità umana. A quelli che le chiedevano filtri d’amore rideva in faccia, rispondendo che uomini e donne sapevano già bene come fare per attirarsi vicendevolmente.
Una volta aveva teso a Kveld un’ascia, e al rifiuto di lui gli aveva ordinato, con un gesto imperioso e uno sguardo magnetico, di prenderla.
«È parte di te come la tua bontà, e non diversamente.»
Kveld aveva ripreso a esercitarsi con l’ascia, solo, senza nessuno con cui combattere se non i fantasmi. Imitava, colpendo il nulla, le gesta compiute da Egill e dagli altri eroi delle saghe per abbattere i nemici. Ma tutti i nemici erano un unico nemico: suo padre.
Con la destra scagliava l’ascia ed era in grado di colpire un bersaglio a venti passi di distanza. Le ossa della mano sinistra si erano provvidenzialmente, o miracolosamente, saldate in modo da dargli più presa e forza. Quando impugnava il manico dell’ascia con la sinistra, era come se il palmo e le dita formassero una macchina da guerra. Nessun colpo, per quanto forte, avrebbe potuto costringerlo a disserrare il pugno. Avrebbero dovuto piuttosto tagliargli il polso. E soltanto un uomo al mondo, in seguito, sarebbe riuscito a disarmarlo.
Non aveva più cercato i suoi genitori, ma li aveva visti. Aveva scorto Bera una mattina, fuori dalla capanna della völva. Aveva passato tutta la notte appostata fra le rocce, in attesa di lui. Era come una cagna che gira intorno alla casa di chi le ha sottratto il cucciolo. Bera gli aveva lanciato un lungo sguardo in cui si mescolavano vergogna, disperazione, amore e bisogno di essere punita. Kveld aveva provato compassione e rabbia. Sotto il suo sguardo inflessibile lei se n’era andata, curva e più vecchia, discendendo verso il villaggio. La sconfitta la rendeva simile alle altre donne, lei nelle cui vene scorreva il sangue di Egill.
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