Stefano Di Marino: Ma la scriveresti una storia di spionaggio sulla Guerra fredda?
Stephen Gunn: Be’ certamente, anche se al momento non è tra i miei interessi prioritari. Scriverei più volentieri di spie e intrighi durante la Seconda guerra mondiale (per la verità l’ho già fatto...). Quel genere di vicenda mi permetterebbe di inserire all’intrigo classico di spie l’azione di commando. Sono un grande estimatore di Alistair McLean e di Jack Higgins che hanno creato e coltivato un vero genere in questo senso. Mi piacciono moltissimo le storie di commando. Credo che possa essere una via per rinnovare la spy story attingendo anche alla sua tradizione.
Ricordo un romanzo di Robert Ludlum (o forse del team che firma i suoi libri da quando è morto) intitolato Il complotto [The Tristan Betrayal, 2003. BUR] e ambientato durante la Seconda guerra mondiale tra Germania e Russia.
In questo senso mi piace citare anche un altro scrittore che trent’anni fa mi influenzò moltissimo, Ken Follett. Il Codice Rebecca [The Key to Rebecca, 1980. Mondadori], La cruna dell’ago [Storm Island, in seguito Eye of the Needle, 1978. Mondadori] e L’uomo di Pietroburgo [The Man from St. Petersburg, 1982. Mondadori] sono ottimi esempi di spy story classica, con un’ambientazione storica che accontentano sia chi cerca l’avventura sia chi vuole romance e intrigo. Recentemente l’unico Follett che mi sia veramente piaciuto è stato Le gazze ladre [Jackdaws, 2001. Mondadori]. Una bella versione al femminile di Quella sporca dozzina. Sulla stessa vicenda in Francia hanno realizzato un bello sceneggiato con Sophie Marceau, Les femmes de l’ombre [di Jean-Paul Salomé, 2008. Uscito in Italia solo in un raro DVD OneMovie con il titolo Female Agents].
SDM: Vedo che la tua narrativa nasce da un’attenta documentazione e lettura di quanto c’è sul mercato. Sempre parlando di spionaggio bellico hai altri esempi da citare e suggerire?
SG: Naturalmente. Tra tutti devo dire che La spia improbabile [The Unlikely Spy, 1995. Mondadori] di Daniel Silva - che è anche uno dei migliori autori di spionaggio classico con evidenti richiami a John le Carré - per me è rimasto un esempio. Poi c’è un romanzo curioso e bellissimo che vorrei ricordare. L’ora del lupo [The Wolf’s Hour, 1989. Gargoyle] di Robert McCammon che era una sorta di James Bond licantropo. Favoloso. C’era tutto, la parte in Russia con gli echi della rivoluzione, la storia più propriamente di licantropi e poi una grande avventura di spionaggio nella Seconda guerra mondiale tra l’Egitto, la Francia e l’Europa del Nord. Qui la vicenda ricordava alcuni romanzi di Ian Fleming con il super cattivo, il suo sgherro cattivissimo e una sorta di caccia all’uomo su un treno blindato, un tipico espediente narrativo dell’autore di James Bond. Benché su Segretissimo le contaminazioni non siano molto gradite dal pubblico è un romanzo che consiglio a tutti gli appassionati di romanzi d’avventura di leggere.
SDM: Parliamo di Ludlum, visto che sul finire della prima parte della nostra intervista alludevi ad altri autori “classici” che ti hanno ispirato.
SG: Sì e mi riaggancio alla tua domanda sui romanzi sulla Guerra fredda. Al di là dell’interesse alla ricostruzione storica mi piacerebbe scrivere un romanzo con quei meccanismi. Ora ricordiamoci che se Deighton, Greene e le Carré e, se vogliamo Maugham e Ambler, vengono da una scuola per così dire letteraria, non erano gli unici a scrivere sulla Guerra fredda. Fleming, Bruce e tutti gli autori di Segretissimo hanno avuto il loro massimo fulgore in quell’epoca. L’hanno raccontata con piglio differente.
Ora, lasciamo un attimo da parte l’influenza di Segretissimo che per me è stata fondamentale dal punto di vista del ritmo, diciamo che i meccanismi di doppi agenti, cospirazioni, trucchi mi hanno sempre affascinato. In parte li ho adattati a situazioni più moderne. In Ora Zero [2005. Nord; TEA] c’era chiaramente un riferimento ai meccanismi di questo genere di romanzo. Il personaggio di Georg Bruckner che torna a infestare anche le ultime avventure di Chance pur essendo morto da anni, potrebbe essere considerato una sorta di Smiley.
SDM: Cosa elimineresti invece da quel genere di romanzi?
SG: Molto sinceramente, io sono convinto che se scrivo una storia di intrigo sia logico che i conflitti trai personaggi abbiano un loro ruolo. Non voglio però che le vicende personali, l’analisi psicologica certi tipi di “tensioni morali” siano invasivi sulla storia. Stiamo scrivendo fiction. I personaggi si definiscono con quello che fanno. A volte basta uno sguardo una battuta.
Di quel periodo mi interessa l’intrigo, la macchinazione, la politica. E qui arriviamo a Ludlum che tra gli autori “da libreria” mi ha influenzato decisamente di più di le Carré e Deighton. Un nome senza volto [The Bourne Identity, 1980. Rizzoli], Il circolo Matarese [The Matarese Circle, 1979. Rizzoli], Il mosaico di Parsifal [The Parsifal Mosaic, 1982. Rizzoli], Striscia di cuoio [The Osterman Weekend, 1972. Longanesi; Mondadori] restano per me i migliori romanzi di spy story mai scritti. Li cito spesso e per me sono fonte di ispirazione nella costruzione delle trame in cui si abbinano teorie della cospirazione, azione e macchinazioni. Certo, sotto un profilo letterario erano meno interessanti dei classici, ma io li trovavo più vicini alla mia ispirazione che, alla fine, era quella del pulp.
SDM: Ti piace il reboot di Jason Bourne?
SG: Io credo che Un nome senza volto dovesse restare un romanzo unico. Era semplicemente perfetto. E mi è piaciuta molto anche la versione televisiva con Richard Chamberlain e Jaclyn Smith [Identità bruciata, 1988, di Roger Young]. Già gli altri romanzi di Ludlum Doppio inganno [The Bourne Supremacy, 1986. Rizzoli], Il ritorno dello Sciacallo [The Bourne Ultimatum, 1990. Rizzoli] mi erano piaciuti meno. Molto pesanti come scrittura.
I film con Matt Damon hanno riletto il personaggio in maniera moderna. Possiamo dire che il nuovo Bond cinematografico è nato da lì. Certo che mi sono piaciuti, soprattutto il primo, quelli di Paul Greengrass tecnicamente erano interessanti ma avevano una pretesa autoriale che secondo me stride. Però Matt Damon non è David Webb e neanche Jason Bourne. Però la serie ha avuto dei buoni momenti. Adesso mi dicono che la riprendano da capo con un altro attore.
SDM: E dei romanzi di Eric Van Lustbader?
SG: Ah, Lustabader è stato uno degli autori di riferimento negli anni ’80 con la serie del Ninja ma anche con quelle di spionaggio. I due episodi di Jack Maroc mi hanno influenzato moltissimo e anche gli ultimi tre episodi del Ninja (Kaisho [The Kaisho, 1993. Rizzoli], Tanjian [Floating City, 1993. Rizzoli] e Kshira [Second Skin, 1995. Rizzoli]) sono perfette storie di spionaggio come le concepisco io. Esotismo, azione e intrigo.
Solo un altro scrittore mi ha influenzato cosi in quel periodo che è Marc Olden che purtroppo è quasi inedito in Italia ma ne ho tradotto un episodio per Segretissimo Kisaeng [Kisaeng, 1991. Segretissimo n. 1248].
Tornando a Lustabader... ha fatto un ottimo lavoro con Bourne ma è il “suo” Bourne... o meglio è una versione completamente diversa, anche delle cose sue degli anni ‘90. Recentemente credo che abbia complicato un po’ troppo la storia. Ma lo leggo sempre con piacere.
SDM: E gli altri Ludlum apocrifi?
SG: Li ho letti tutti perché, come ti dicevo, Ludlum - o meglio la sua formula narrativa - è quella che più ho amato negli anni ‘80 quando cominciavo a scrivere cose più articolare. Mi piacciono moltissimo quelli della serie Covert One [9 romanzi, di cui solo 4 arrivati in Italia] in particolare quelli di Gayle Lynds che ritengo una delle migliori scrittrici di spionaggio, purtroppo anche lei quasi inedita in Italia.
SDM: Di fatto Bourne ha avuto molte filiazioni.
SG: Sì, devo ammettere che... insomma quelle che mi piacciono sono poche. Una l’ho scritta io. La serie di “Vlad” viene da Un nome senza volto, la storia di un uomo che perde la memoria e non riesce più a recuperarla. Ora sto ristampando la serie con dbooks [www.dbooks.it] in una versione che in parte la rilegge e in parte la riscrive. Non potei farla come volevo e quindi mi pare giusto rivederla con un criterio nuovo.
L’altra filiazione diretta è la serie XIII di Jean Van Hamme. Non mi stancherò mai di dire che lo considero uno dei miei principali modelli e maestri. Sto rileggendo in questi giorni - per l’ennesima volta - la serie e continuo a stupirmi della grandissima capacità di gestire personaggi e intrecci in maniera sempre nuova e soddisfacente per il pubblico. XIII ha filiato anche una miniserie con Stephen Dorff e Caterina Murino [XIII, 2008, diretta da Duane Clark] ripresa poi in un serie TV da 13 episodi [XIII: The Series, 2011, co-diretta da Duane Clark] che non ha niente da indivdiare a 24.
Qui ci sarebbe da aprire un discorso su EuropaCorp.
SDM: Be’ che aspetti: spara!
SG: Da dieci anni e anche di più in Francia è in vigore una normativa che tassa meno i prodotti cinematografici d’importazione americani in cambio di tecnologie utili per realizzare film d’azione. Il risultato è che EuropaCorp (dietro cui sta Luc Besson) ha cominciato con la serie del Transporter valendosi di Jason Statham ma girando in Francia, per poi crescere sempre di più con co-produzioni con Paesi di lingua francofona o iberica ed è arrivata appunto a fare i film di Largo Winch, la serie XIII, Colombiana, From Paris with Love e tra poco anche un serio film di fantascienza europeo: Lock Out con Guy Pearce. Prodotti esportabili (che non sempre arrivano da noi...) d’intrattenimento, d’azione.
Da noi il cinema di genere è morto e sepolto, di televisione non parliamo... Se ci fosse una realtà differente sarebbe possibile fare film o telefilm del Professionista. Invece beccatevi Checco Zalone e le altre commediole della domenica degli sfigati... in alternativa correte in edicola a comprare Segretissimo.
SDM: E su questa dichiarazione al calor bianco terminiamo questo secondo incontro. Credo che avremo ancora da discutere su influenze e modelli sin dagli anni ’70...
SG: Parola del Professionista.
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