Stephen Gunn mi riceve nel suo ufficio in una giornata fredda. Libri e ricordi dappertutto. Armi antiche, esotiche, riproduzioni, DVD e volumi di ogni tipo dal cinema, alla geografia, al fumetto e all’erotismo. Siamo in un laboratorio di scrittura da cui fuoriescono idee a ritmo continuo. Come potrei non conoscere questo posto?
Gunn mi fa accomodare davanti alla sua postazione. Accendiamo un sigaro e gustiamo uno shot di vodka aromatizzata al miele e al peperoncino. Intorno, appese alle pareti, ci guardano le meravigliose copertine di Victor Togliani dedicate al Professionista, ma occhieggiano anche ritratti di donne conosciute, amate, scivolate via con il tempo.
Stefano Di Marino: Insomma come è nato il Professionista?
Stephen Gunn: Quasi venti anni fa dopo aver pubblicato il primo lungo romanzo di spionaggio Pista cieca, ripresi l’idea di creare un serial per Segretissimo. Un po’ volevo ripescare il personaggio di Julius Colleoni di Appuntamento a Samaringa che aveva già alcune delle caratteristiche del personaggio. Veniva dall’Italia, era un ex legionario, non serviva nessun particolare padrone.
SDM: Mi pare che le influenze siano già abbastanza chiare...
SG: Sì, in effetti era un po’ che ci pensavo. Ero rimasto sin dagli anni ’80 con quell’idea di creare un personaggio con tratti in comune con Lo Sconosciuto e anche con Ulisse Ursini di Al servizio di chi mi vuole [1970] di Giorgio Scerbanenco, inserendolo però in quel mondo che conoscevo così bene, quello di Segretissimo e della spy story in generale. Feci un tentativo scrivendo una sceneggiatura per Granata Press che si chiamava Agente di nessuno ed era una bella storia ambientata a Beirut con gli armeni, gli israeliani. C’era un tocco di Un nome senza volto [The Bourne Identity, 1980. Rizzoli] di Robert Ludlum. A Bernardi piacque tanto che me la pagò anche se non realizzammo mai il progetto perché erano 260 tavole e non c’erano disegnatori disponibili per storie così lunghe... scritte da uno sconosciuto. Era una cosa che avrei dovuto immaginare, forse ci avrebbe dovuto pensare un po’ anche l’editore. In ogni caso poi Chance prese forma in un altro progetto Granata diviso in tre episodi ma non riuscimmo a portare a termine neanche quello.
SDM: Quindi arrivasti a Segretissimo?
SG: Sì, anche se nel 1992 avevo già pubblicato un romanzo (firmato Di Marino...) Sopravvivere alla notte [Segretissimo n. 1204] che era un po’ una prova generale. Una storia ambientata parzialmente in Italia in cui si possono ravvisare anche degli elementi sviluppati nel Professionista di oggi. Ne parleremo in un altro momento. Negli anni ’90 la situazione comunque era un po’ differente da oggi. In quel periodo la testata languiva un po’. Io credo che la responsabilità fosse un po’ del precedente direttore che amava molto il giallo classico ma non lo spionaggio. Dall’89 al ’94 si pubblicavano solo romanzi gialli con vaghe sfumature d’intrigo. Arrivò poi un altro direttore che lesse i dati di vendita rilevando che SAS era come sempre il più venduto. Mi chiese allora di scrivere una serie nuova, simile per ritmo e contenuti... con uno pseudonimo, come sai. (Ride e rido anche io).
SDM: Ma Il Professionista è piuttosto diverso da SAS.
SG. Sì, e anche da 007 e dagli altri agenti che mi avevano appassionato da ragazzo. Era un eroe d’azione, un indipendente ed era frutto sì di quel format che aveva fatto la fortuna di Segretissimo ma anche di altri spunti, cinematografici, letterari e fumettistici. Alla fine credo che abbia avuto successo perché pur ripercorrendo strade note, era diverso. Aveva qualcosa di me.
SDM: Una domanda d’obbligo. Perché scrivi di spionaggio?
SG: Considerando che non ho scritto e non scrivo “solo” di spionaggio, è in effetti il genere che conosco meglio e in cui mi riconosco di più. Sono passato dalla lettura di Emilio Salgari e dei grandi western a Ian Fleming e Segretissimo senza soluzione di continuità. Gli eroi di Segretissimo li ho seguiti sin da ragazzo. Alcuni mi piacevano moltissimo. SAS, Sam Durell, Nick Carter, Phil Sherman, Il Tigre, altri meno ma credo di aver assorbito molto bene i canoni dello spionaggio avventuroso. Perché, ricordiamolo, Segretissimo era, ed è, una collana pulp che richiede un ritmo sempre sostenuto, una certa aderenza ai canoni del Bond cinematografico sia in termini di storie che di protagonisti. Ricordo che, negli anni ’80 Laura Grimaldi cercò di inserire nella collana romanzi simil-LeCarré perché evidentemente pensava di nobilitare la collana ma non mi piacevano molto e credo neanche al pubblico fedele della collana. Diciamo che, sinceramente, scrivere romanzi dello spessore psicologico e narrativo di Len Deighton e John le Carré non è facile. Le imitazioni risultavano piuttosto manieristiche e noiose. Meglio una “semplice” ma divertente avventura.
SDM: Quindi esiste una narrativa spionistica che non ti piace?
SG: Non esattamente. Il genere mi piace in tutte le sue sfaccettature, anche lo spionaggio della Seconda guerra mondiale di cui magari parleremo in futuro, che rappresenta un filone tutto suo in cui s’incontrano il combat e l’intrigo. Per tornare all’argomento di questo primo incontro sulla scrittura di spionaggio; certo, da ragazzino preferivo le avventure esotiche, piene di sparatorie e belle donne ed è ancora il genere che scrivo con maggior divertimento. Però ho scoperto intorno ai vent’anni il genere più classico e l’ho sempre seguito. Le Carré, Grady e altri come Greene e più recentemente Silva, Rob Smith e Steinhauer hanno avuto un influenza determinante in quello che scrivo.
SDM: Quindi potresti parlarci del format di questo genere di spionaggio, diciamo più riflessivo, più adulto.
SG: Naturalmente. Questo genere di spy story è, fondamentalmente, legata al noir. C’è una maggior attenzione per le atmosfere decadenti, pessimiste. L’intrigo spesso approda in famiglia. Nello spionaggio avventuroso sembra di vivere in un universo di single dove tutti, buoni o cattivi, sono pronti a saltare nel letto più caldo. Un mondo in cui non ci sono preoccupazioni di carattere familiare, figli, fratelli, gente comune trascinata nel Grande Gioco. Tutti sono... professionisti. Niente legami. Nello spionaggio più noir, invece, le debolezze umane, le meschinità aziendali, tradimenti, le palpitazioni generate da questi rapporti che non dovrebbero entrare nella sfera professionale dei professionisti diventano fondamentali per la trama. Per citare le Carré oltre all’ormai celebre trucco con cui Bill Haydon svia i sospetti da sé intavolando una relazione con Ann, la moglie di Smiley, per screditarne eventuali accuse ne La talpa, guardiamo a Tutti gli uomini di Smiley. Il legame madre-figlia di Madame Ostrakova con Alexandra è funzionale al piano di Karla per portare in occidente Tatiana, la figlia schizofrenica. Ed è proprio questa debolezza che Smiley sfrutta per costringerlo a passare oltre il Muro.
SDM: Differenze che derivano dal periodo storico?
SG: No, in fin dei conti anche lo spionaggio avventuroso è figlio degli anni della Guerra fredda. Solo cambia lo sguardo. In altre produzioni c’è una maggiore attenzione alla cultura pop e lo si vede nelle ambientazioni. Poi ci sono alcune tematiche (tipo il raggio della morte, il lavaggio del cervello, l’uso esasperato dei gadget) che vengono proprio dalla cultura popolare di quel periodo ma sviluppano storie e situazioni in maniera differente. La via seguita da le Carrè (che è forse il principale ma non l’unico a scrivere con quella formula) è prettamente anglosassone. Deriva dai classici: Joseph Conrad, Eric Ambler e certamente anche W. Somerset Maugham. Nello stesso periodo cominciano ad apparire spy stories americane che hanno un taglio completamente differente, basti pensare a Howard Hunt, allo stesso James Grady; Trevanian de Il ritorno delle gru [Shibumi, 1979. Bompiani] ma soprattutto dei “castighi” sviluppa l’argomento in modo totalmente differente, molto americano, se vogliamo. Diciamo che ci sono delle differenze soprattutto di percezione del pubblico della figura del protagonista.
SDM: L’eroe diventa un uomo qualunque?
SG: Non esattamente. Come ho già notato più volte, Smiley e Bond si assomigliano più di quanto possa sembrare. Sono entrambi freddi soldati di una battaglia senza esclusione di colpi. Bond è più giovane, un bon vivant, aggressivo. Ma Smiley non è un debole. Consideriamo anche che è un uomo anziano, già praticamente in pensione. Si muove, controlla, indaga, muove le sue pedine (Guillam e Tarr per esempio cui son riservate le poche ma non inesistenti sequenze di azione). Alla fine Smiley è forse psicologicamente più duro di Bond o del Professionista. Solo che il noir che accompagna le sue vicende lo porta in situazioni meno spettacolari. Lo stesso Agente Senza Nome di Deighton - mi riferisco soprattutto alla sua immagine cinematografica incarnata da Michael Caine [nel film Ipcress (1965) tratto dal romanzo Agente senza nome (The Ipcress File, 1962)] - viene lanciato da Harry Saltzman (che era stato uno dei produttori di 007) come l’anti-bond ma è solo una verniciatura. Harry Palmer porta gli occhiali, lo vediamo cucinare gustosi manicaretti, far la spesa al supermercato - cose che 007 non faceva - ma alla fine è un tombeur de femmes, uno che si trova a combattere contro cattivi che vogliono conquistare il mondo (Un cervello da un miliardo di dollari [Billion Dollar Brain, 1967, di Ken Russell tratto dal romanzo omonimo del ’66]) o condizionare la mente umana, che sono poi temi da spionaggio avventuroso. Diciamo che l’ambientazione prevalentemente europea gioca un suo ruolo.
L’avventura dello spionaggio “classico” non fa ricorso a paesaggi da cartolina e depliant turistici, tutto viene appositamente banalizzato, ingrigito, per creare una certa atmosfera. Di conseguenza anche l’eroe viene ridimensionato, non è più l’uomo “apparentemente” ideale delle riviste di sport o di moda.
SDM: Parlando di scrittura c’è quindi un rallentamento dell’azione e una banalizzazione dei set?
SG: No, direi di no. Ora, lo spionaggio avventuroso ha necessità di colori a tinte forti, di azioni spettacolari, che vanno dal fumettistico al cinematografico nel senso più hollywoodiano... o honkonghese se vogliamo. Lo spionaggio “classico” predilige ambientazioni europee, almeno quello legato alla Guerra fredda, ma non dimentichiamo che Graham Greene scrisse Il console onorario [The Honorary Consul, 1973. Mondadori] e Il nostro agente all’Avana [Our Man in Havana, 1958. Mondadori] o Un americano tranquillo [The Quiet American, 1955. Mondadori] scegliendo ambientazioni che di per sé erano esotiche quanto L’onorevole scolaro [The Honourable Schoolboy, 1977. Rizzoli; Mondadori] sempre di le Carré ci porta in Estremo Oriente. Cambia lo sguardo. Tutto diventa forse più sottile, studiato. Ecco, a me piace più questo aspetto del filone nero. L’atmosfera della vecchia Europa, i club degli espatriati in Africa o in Oriente. I sotterfugi per passare le informazioni. In pratica, le Regole di Mosca. Alla fine i romanzi di Daniel Silva che sono quelli che più si avvicinano a quelli classici hanno un linguaggio e un ritmo completamente differenti.
SDM: In pratica sembra che sia cambiato qualcosa nella scrittura di questo genere anche se non si pratica la spy story avventurosa.
SG: Sì certo. Noi (intendo la generazione di autori italiani come me, Andrea Carlo Cappi e Giancarlo Narciso) siamo cresciuti leggendo romanzi fiume che prendevano la storia alla lontanissima, attardandosi su particolari di un arazzo che, alla fine, conduceva a un quadro estremamente complesso e coerente in cui si svolgeva la storia. Ecco, a me piace moltissimo questo tipo di struttura narrativa ma, credo, che oggi non sia più possibile scrivere così. I tempi di lettura, di attenzione del pubblico impongono che anche trattando un genere spionistico meno ritmato sia necessario narrare trame più lineari e soprattutto più rapide nello svolgimento.
SDM: Sembra che tu abbia in mente anche qualche altro modello oltre le Carré o Deighton.
SG: Sì, ma ne parleremo nella prossima puntata...
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