Inizio folgorante con Brandon/Micheal Fassbender in una posa che richiama il Cristo dipinto dal Mantegna.

Sarà perché le vie crucis sono molte e tutte vanno percorse fino in fondo pena la perdita del senso stesso della sofferenza. Resta il fatto che alcune di vie proprio non sembrano adatte ad una persona come Brandon, ed invece per qualche oscuro motivo (che tale rimarrà…) anche lui è in marcia, magari da laico, ma pur sempre in marcia, sospinto da qualcosa (l’oscuro motivo…) che lentamente (e letteralmente…) lo sta scarnificando.

Se c’è una cifra stilistica in questo Shame del londinese Steve McQueen, questa si chiama consapevolezza. Anzitutto quella necessaria ad affrontare un tema come quello della sex addiction, o dipendenza sessuale, o ipersessualità (ognuno scelga il quello che più lo aggrada…), in tutti i suoi aspetti, tutti con al centro il sesso purché sia rigorosamente compulsivo e senza il benché minimo coinvolgimento emotivo (a pagamento, solitario, via web…), tema che se non maneggiato con cura rischierebbe di seppellire il film sotto una coltre di morbosità che se accettabile per certi versi sul piano del ritorno pubblicitario, finirebbe col diventare deleteria sul piano sostanziale.

Da questo punto di vista McQueen ne esce a testa alta passando con abilità attraverso la porta stretta, anzi strettissima, del necessario e lasciando ben chiusa quella del superfluo così che l’intera messa in scena, anche nei suoi momenti più “caldi”, rimane la pura e semplice messa in scena di un corpo che sembra sempre meno un essere vivente e sempre più un cadavere che non sa ancora di essere morto o un morto che qualcuno si è dimenticato di seppellire (vedi il volto di di Brandon nella scena del ménage à trois, volto che sembra oramai quello di un teschio).

L’altra consapevolezza è che McQueen sa benissimo che non esiste “la ripresa perfetta” ma solo e soltanto “la ripresa più adatta” alla scena e al momento, ed eccolo allora destreggiarsi tra il piano sequenza o quando serve il montaggio più serrato.

Infine, un’altra consapevolezza che in questo caso sembra appartenere di più a chi guarda, cioè quella che concerne la strettissima interdipendenza tra McQueen e Michael Fassbender, quella relazione del tutto particolare tra chi è dietro e chi davanti la cinepresa.

Be’, senza il primo non ci sarebbe il secondo, vero, ma altrettanto vero che senza il secondo non ci sarebbe stato Shame così come lo abbiamo visto e che continua a lavorare dentro anche una volta usciti dalla sala.

Coppa Volpi a Fassbender per la migliore interpretazione maschile alla 68. mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, Premio Fipresci, Premio Arca Cinemagiovani e Premio Cinemavvenire.