“Homo su, nihil humani a me alienum puto”, scrisse Terenzio nell’Heautontimorumenos. Sono un essere umano, niente che riguarda l’uomo ritengo estraneo da me. Cos’hanno in comune il grande commediografo latino e l’inglese Denis Avey? Lo stesso principio di solidarietà per cui capita, delle volte, che chi nasce uomo non riesca a voltare la faccia di fronte alle disgrazie altrui.
Il riferimento corre al libro Auschwitz, ero il numero 220543, un romanzo autobiografico divenuto best-seller, scritto da un uomo di 93 anni, l’inglese Denis Avey, che ha vissuto e raccontato – insieme a Rob Broomby – la sua esperienza di soldato catturato in Egitto dai nazisti e portato nel più tristemente famoso campo di concentramento. Si era reso conto fin da subito della differenza di trattamento riservata ai prigionieri come lui, ovvero ai soldati inglesi, e agli ebrei: «I due campi di prigionia erano contigui: il nostro, di soldati inglesi, e quello degli ebrei. Lavoravamo insieme alla costruzione di una fabbrica della IG Farben, il colosso della chimica, che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivamo gli stenti – undici ore al giorno a spaccarci la schiena – ma non le esecuzioni arbitrarie: quegli uomini ombra con l'uniforme a righe e il volto terreo morivano di continuo, ammazzati a calci e bastonate o stroncati dallo sfinimento. A noi i nazisti consentivano di sopravvivere. La sera, ci scortavano ai rispettivi campi: loro ad Auschwitz III, di cui sapevamo solo - sussurri tra disperati - che era l'inferno in terra. Noi all'E715, dove ci aspettavano baracche e rancio scarso, ma almeno la certezza di arrivare all'indomani».
Come il protagonista abbia deciso di sostituirsi a un detenuto ebreo, il lettore fatica a capirlo – e da qui il mio ricorso al principio latino di humanitas –, forse perché siamo frutto di un’epoca in cui prevale l’individualismo, ma è la stessa voce narrante che tenta di spiegare quel gesto: è stato mosso in primis dalla forte volontà di raccontare la sua testimonianza e poi dal bisogno profondo di lottare per una causa, dal momento che gli erano stati destituiti i presupposti di combattente. Così Denis si sostituisce all’ebreo Hans e diventa spettatore e vittima dell’abiezione umana che già aveva testato, seppur in misura molto più tenue, da “prigioniero speciale”:.
«C’era un tanfo spaventoso, e passarono giorni prima che ne scoprissimo l’origine. La puzza di putrefazione veniva dai cadaveri in decomposizione. Al campo i russi morivano lentamente per la fatica e la fame. Nel tentativo disperato di sopperire alle razioni insufficienti, aspettavano il più possibile a denunciare la morte dei compagni, nascondendone i corpi nelle baracche così da godere per qualche giorno del cibo che sarebbe spettato loro.
I ratti, quelli se la passavano bene. Erano grossi come gatti e si nutrivano di carne umana. Gliene sentivi l’odore addosso. Loro se ne infischiavano delle staccionate e del filo spinato. Io dormivo sul pavimento e, svegliandomi di notte, me li trovavo a zampettare sul petto, sentivo il loro alito fetido sulla faccia».
Un libro che scuote, scritto con una lingua fluida e immediata, e soprattutto che aggiunge domande alle domande, fino ad arrivare alla questione posta all’inizio di questa recensione: quanto l’indifferenza contribuisce alla colpa?
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