Il suo romanzo giallo appena uscito, “Raccolto rosso”, ha una particolarità: ogni capitolo porta il titolo di un’opera letteraria o di un film o di una canzone, come lei illustra in un indice ragionato in fondo al volume. Quali sono i motivi di questa scelta?

“Raccolto rosso” (vedi notizie/11796) ha molte particolarità. Un matto (l’”io narrante”) che si scrive addosso, chiosa, a volte parte per la tangente, che cerca disperatamente di fare lo spiritoso per annegare la sua malinconia di fondo, ma sperabilmente rallegrando il Lettore. E non scordarsi episodi picareschi, personaggi non di primo piano sol perché l’ingombrante dottor Morosi li stiaccia (sic) tutti, poiché malato di un superomismo malato (frutto del suo fallimento etico morale che lo spinge a bere come un muratore al sole… e superalcolici, non acqua Palina, esistente all’epoca), ma peculiari quanto credibili (nel secolo in cui – sciaguratamente – viviamo, avrebbero perfino potuto aspirare ad un seggio in Parlamento), il fatto che il crasso lettore di gialli, con la lingua di fuori come un cane sull’orlo dell’idrofobia, ansioso che gli venga rivelato “chi è l’assassino” si troverà imbarazzato a ricevere il suo salario piccolo borghese a tre quarti dall’inizio del testo: è contro ogni regola del genere. Tener conto che i frequentatori del medesimo (soggetto, genere) sono, al fondo, conservatori, dediti alla ricerca del ripristino della legge e dell’ordine: cosa, più sconvolgente, per gli stagionati virgulti, di un testo che viola già nella forma l’una e l’altro, infrangendo il meccanismo narrativo santificato? E continua a ruota libera per un altro quarto di quella paccàta di fogli, ponendosi in caccia di una verità ultima, privata, trista, più che triste. Il mentovato (piccolo borghese, e magari di recente acquisizione, appena due giorni fa, invidioso proletario) crasso si riterrà truffato; e non a torto, perché il mio è “giallo per parlar d’altro”.

Si tratta di un giallo dalla trama complessa, ambientato a Firenze, che affonda le radici storiche negli anni del terrorismo. Perché ha scelto gli anni 70 per l’ambientazione?

Intorno alla particolarità individuata, si tratta di quel fenomeno che in neurofisiologia si definisce sinapsi: “connessione funzionale fra due cellule nervose o fra una cellula nervosa e l’organo periferico di reazione”. Stavo scrivendo il primo capitolo, e mi è avvenuto di chiedermi in qual modo avrei potuto definirne, in sintesi, il contenuto. Puntuale, specie per una memoria “ferrea e metallurgica” come la mia, è scattato il riferimento al titolo di un pernicioso romanzo. Per ragioni che la ragione non può comprendere, mi sono ritrovato, quasi automa, ad usare l’attrezzo, quale congrua definizione atta a preannunciare il contenuto del primo capitolo… Poi, è stato giocoforza continuare. Va precisato che tutti i titoli si riferiscono, esclusivamente ed in sintesi, al testo che va a costituire il capitolo di riferimento, che quindi non hanno alcuna relazione con il contenuto di romanzo, canzone, film, saggio, citati. E’ per questa ragione che ho steso, al termine dello gnòmmero (Carlo Emilio Gadda), un indice ragionato che rende a Cesare quel che è di Cesare (in qualche caso, quindi e perfidamente, ventitrè pugnalate). Consiglio gratuito: prima di iniziare a leggere il romanzo, compulsare (consultare con minuziosità) il prefato indice. Secondo qualcuno, è la parte più divertente dell’intero testo; e non l’ha detto un invidioso: solo un fraterno amico.

Il protagonista “investigatore” è un commercialista piuttosto soprappeso e dedito ai piacere alcolici. Si è ispirato a qualche modello per delineare la figura del dottor Morosi?

La prima stesura affondava le sue radici in un delitto maturato durante la Resistenza, commesso da un partigiano intenzionato a tenersi una valigia colma di preziosi; qualcosa di simile al famoso oro di Dongo. Ho rinunciato perché parlava (soggetto: la prima stesura) di eventi lontani, sia pure verificatisi a più fiate, e davvero, nella realtà di quegli anni (1943/1945) convulsi e spietati. Ahimé: argomento, in pieno o di striscio, ripetutamente trattato in altri testi, ho valutato dopo (im)matura riflessione, tanto da divenire luogo comune, quindi banale. Complessivamente, la rinuncia è stata buona e giusta. La storia “partigiana”, pubblicata oggi, per quel che sono io mi avrebbe costretto a lunghe dissertazioni in favore dei valori Resistenziali, indispensabili in epoca di revisionismo, di invocazioni ad una memoria condivisa che, per quanto che mi riguarda, sono irricevibili: con certa gente non sono disposto a spartire nemmeno un caffé. Alludo a quei soggetti che l’11 agosto di ogni anno, a Firenze, anziché partecipare alle celebrazioni per l’Insurrezione che ci ha dato la libertà, od almeno tacere, vanno al cimitero di Trespiano, a salutare i caduti della RSI, a gridare “alalà” ai cecchini che, sempre a Firenze, durante i combattimenti per la Liberazione, non si limitavano a sparare sui partigiani, e passi, ma su qualunque cosa si muovesse, incluse donne che andavano a prender l’acqua alle fontanelle. Capisco che ognuno ha il diritto di piangere i propri morti, ma non quel giorno, che a tutt’oggi consente ai “camerati” quella libertà di parola della quale usufruiscono manifestando, e che hanno sempre negato agli avversari. Per non parlare di quanto sarei stato costretto a scrivere sull’ineffabile “Pansa che non pensa”, secondo azzeccata definizione del mio amico Loriano Macchiavelli… Avrei finito per diventare palloso. Lasciata in piedi la “sottrazione del tesoro” (altro non dico, per non rovinare la lettura ai “coatti del giallo”), ho traslocato la storia: antefatto negli anni ’70, ripresa e conclusione nel 1988 (nella prima stesura, si passava dal 1944 al 1963, tanto per raccontare l’Italia degli anni del boom economico vero). Questo mi ha permesso di valutare nella sua pienezza (in quell’anno, il disegno era compiuto) il boom economico drogato posto in scena da una classe politica decisa ad “imborghesire gli operai” (secondo terminologia degli ideologi di ogni possibile sinistra. Notarsi che gli operai non aspettavano altro, con buona pace degli ideologi medesimi, e secondo facile anticipazione “dal sen fuggita” più sopra., quando mi sono espresso in termini di proletari invidiosi, individuata dal sottoscritto non a posteriori, ma con largo anticipo; qui, a fortiori), per togliere dalla loro testa alcune parole d’ordine ed idee bischere, circolate nel corso degli anni ’70. Operazione di “recupero al sistema democratico” non indolore: i due milioni di miliardi di lire del primigenio debito pubblico nascono dal ritorno al privato, dal riflusso, e dal famoso “edonismo reaganiano”, ma per fortuna (non c’erano i termini e, come asseriva Togliatti – cinico, ma non coglione -, “se sbagliate l’analisi, sbagliate tutto”) “rivoluzione non si farà”. Resta che il cambiamento antropologico avvenuto fra i ’70 e gli ’80 è stato epocale: da “Il popolo è forte è vincerà” a (perfino) le mutande firmate… più che di iato, temo si debba parlare di abisso. Di questo, e nei limiti imposti da un romanzo, ho dato conto in “Raccolto rosso”. Se ci sono riuscito, non spetta a me dirlo. Più che dedito al piacere degli alcolici, il dottor Morosi è costantemente alticcio. Cura la propria infelicità interiore frequentando whisky (scozzese) o whiskey (americano) delle più distinte marche, con netta preferenza per il sogno alcolico a star and stripes forever. Questione di temperamento, del vissuto, delle cose che avrebbero potuto essere e non sono state, di “rose che non colsi” (per certi umori, personaggio crepuscolare, gozzaniano, sia pure immerso in atteggiamento cinico, ma di maniera; rancidamente romantico). Il dottor Morosi soffre di inadeguatezza dovuta al suo aspetto fisico. Avrebbe voluto essere alto, bello, biondo e con gli occhi azzurri. E’ solo alto. Soprappeso è divenuto avendo inconsciamente deciso di annegare nel cibo, oltre che nell’alcool, la ricordata inadeguatezza. Non ho tratto ispirazione da qualcuno che conosco. Fisicamente, nel mio cervello il Morosi ha l’aspetto di Marco Messeri, attore bravissimo che avrebbe meritato maggior fortuna (vedi “Notte italiana”, Italia 1987, esordio alla regia di Carlo Mazzacurati), e col quale mi scuso per averlo immaginato nei panni di un commercialista che non è precisamente un Apollo. Certo Messeri, uomo di spirito, converrà con me che la bellezza non è una delle sue qualità più salienti… Quanto alla professione esercitata dal dottor Morosi: mi serviva un personaggio danaroso (per evitarmi la stracca storiella dell’investigatore, oltre che dilettante, squattrinato: tristissima figura. In più, dilettante doveva essere, in quanto gli investigatori nostrani – ma secondo Chandler, nella realtà anche quelli statunitensi – sono improponibili, alle prese con storie di delitti), che esercitasse una professione (il)liberale, con parecchio tempo a disposizione… Di avvocati che frugano, ne abbiamo pieni quei luoghi che si trovano un palmo sotto l’ombelico … Un architetto, cosa può mai architettare? Deciso: un commercialista, anche un po’ trappolone (parlo del dottor Morosi; mai generalizzare: più che altro perché si rischia di essere sepolti da una valanga di querele).

Quali fra gli autori italiani ritiene che rappresentino meglio il genere poliziesco/noir dei giorni nostri?

Francamente, c’è il giro una quantità stucchevole di Autori. Non che io tema la concorrenza: un signor nessuno, uno scrittore della domenica qual sono, lascia che gli altri volino alto, ammesso che ci riescano; ed è meno facile di quel che sembra. Noto infatti, ed anzitutto, che alcuni Autori sono solo sedicenti tali, non fosse altro perché sono impagabili spiriti che scrivono romanzi in modo “garibaldino”, tanto ci pensa l’Editore, a trovare il “negro” che arrangia tutto per quattro lire. Non è fanfaluca: ho sentito loro esplicite ammissioni, sul punto, nella circostanza della presentazione di testi che, valutando l’affermazione con un minimo di bonomia, potrebbero definirsi “telefonati”, secondo il gergo della boxe. A seguire: buona parte della moltitudine è poi costituita da individui che, semplicemente, dovrebbero anzitutto imparare l’uso di un italiano “commestibile”. Lo ricavo piluccando fior da fiore. Mi avviene infatti che non ho tempo, né voglia, di leggere molto di quel che viene pubblicato. A costo di apparire snob, confesso che nei momenti di abbandono, preferisco rileggere i grandi classici della letteratura mondiale: Faulkner (è mia antichissima frequentazione: ho letto per la prima volta “L’urlo e il furore” nel 1960, in due giorni, seduto su una panchina, a Tirrenia), Stendhal, Tolstoij, Melville, Stevenson, oppure autori moderni: David Foster Wallace, Don De Lillo, per rammentarne solo due… Ad occhio, direi che c’è in giro molta gente che si arrabatta con trame improbabili, addirittura più “costruite” di quelle dell’Agatha Tristi (sic), che è tutto dire; autori a nient’altro intenti se non a procurare un cadavere al lettore (giochiamo agli anni ’30, o cosa?), direbbe la buonanima di Chandler. Per non fare torto a nessuno, e specialmente agli amici, richiesto di farmi “delatore” circa rilevanti Autori nell’ambito del poliziesco/noir italiano, mi limito a segnalare… anzitutto un amico, Loriano Macchiavelli (“Tango”, scritto con Guccini è un grande romanzo; e taccio gli altri, per evitare di produrre un “santino”); a seguire, Massimo Carlotto che, però, in parte sconta il fatto che la saga dell’Alligatore è (tautologia: altrimenti non sarebbe una saga…) seriale, pertanto, a volte, ripetitiva: non nelle trame, è ovvio (altrimenti, du’ palle!), quanto perché ogni volta Carlotto si trova a dover descrivere protagonista, vecchio Rossini, Max la Memoria, a beneficio del lettore che si accosta per la prima volta ad uno dei volumi della serie, ma rompendo i coglioni a quelli che non sono Max, ma hanno la memoria dei testi già esibiti. Naturalmente, c’è poi sulla breccia tutta una nutrita schiera di altri valorosi autori italiani: però non disponendo io, del tempo necessario ad illustrarne le “meravigliose” produzioni, preferisco tacere. Sparar nomi senza allegare le ragioni che inducono a citarli, è senza costrutto.

Secondo lei, qual è la funzione della letteratura di genere giallo/noir in questi ultimi anni?

L’espressione “letteratura di genere” mi provoca una eruzione cutanea. Sinceramente, il concetto ha fatto il suo tempo. Solo chi non lo ha capito, continua imperterrito a produrre la ricordata ribongia. Oggi, gli autori più avvertiti scrivono di giallo per parlar d’altro; ovvero, stendono romanzi che non necessitano di appendici classificatorie, anche se hanno il morto incorporato. Ritengo non piccolo merito del giallo italiano quello di aver fermato su carta, nel suo divenire, la storia del nostro Paese: questa la sua funzione (spesso di supplenza, rispetto all’anemica letteratura tout court), tanto per rispondere alla domanda posta. Una caratteristica, una funzione, quasi totalmente assenti nei gialli stranieri; compresi quelli più datati: non ci sono peculiarità esplicite che si riferiscono al periodo in cui si svolgono. Certo, l’”Assassinio sull’Orient Express” non poteva che svolgersi all’epoca in cui quel treno, e nel suo percorso originario, era in attività, quindi la datazione è implicita; ma di quel che avveniva nel mondo circostante, niente sappiamo: siamo immersi in un limbo. Per dirne un’altra: “Pietro il lettone” di Simenon, ha quale protagonista l’esordiente Maigret. Il romanzo è del 1929. Il prode commissario passa indenne attraverso il Fronte Popolare di Leòn Blum, la vergogna di Vichy, sommovimenti, guerre, calde o fredde non importa, sollevazioni di colonie (francesi), lotte per l’indipendenza e l’autodeterminazione… Senza scosse, quasi che “camminasse sull’acqua”. Non è una critica, per carità: semplicemente, Simenon è attento a svolgere, e molto bene, la sua commedia umana, e non si cura di quanto avviene intorno al suo investigatore che, fra l’altro, vive in un eterno presente, o quasi, poiché invecchia, ma in modo impercettibile…

A spanne, potrebbe dirsi che questo orientamento del giallo italiano, volto a registrare i cambiamenti che andavano, nel tempo, a modificare la realtà italiana, inizia alla fine degli anni ‘60/primi ’70, con Scerbanenco, tutto, e “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini: testi/ritratti ritratti di città riconoscibili ed esplicitamente citate, rispettivamente Milano e Torino. A seguire, Napoli di Attilio Veraldi, ancora Torino di Renato Olivieri, Roma di Casacci e Ciambricco, Firenze di Alberto Eva (primo autore, pubblicato nei Gialli Mondadori, nel dopoguerra, di un romanzo ambientato nella città del Fiore. Anteguerra, esiste un romanzo fiorentino scritto da un giovanissimo Giorgio Spini, futuro grande Professore), Bologna di Loriano Macchiavelli; citato per ultimo, per una ragione precisa.

I testi ricordati raccontano città che non esistono più, nelle condizioni indicate; ed è precisamente seguendo il dipanarsi delle storie ambientate nelle singole realtà, nello stravolgimento, la mutazione di queste ultime, che si ricostruisce la mappa della storia d’Italia. Questo comporta fatalmente che i testi risultino invecchiati, per il lettore di oggi. Se però la mettiamo su questo piano, personalmente ho sempre trovato un po’ ridicolo Muzio Scevola che si brucia il braccio, punendolo per aver mancato l’assassinio di Porsenna; poi ci ragiono e mi dico: era l’uso dei tempi. Esempio da manuale, è l’ultimo autore citato, Loriano Macchiavelli; il più longevo e costante nella sua produzione. La Bologna dei suoi ultimi esiti letterari non è nemmeno parente, di quella che ci ha raccontato ai suoi esordi. Cos’è avvenuto? Il creatore di Sarti Antonio si è rincoglionito? Certo, ha i suoi anni, ma a sentirlo parlare, sembra lucidissimo… e non dico nemmeno quando mi scrive: perennemente incazzato. No: semplicemente, la città è mutata e il Macchiavelli, seguendo, da bravo indagatore, le tracce di quei mutamenti, li ha via via trasferiti nei testi che ha prodotto. Avremo quindi la Bologna ’70, quella ’80… e via andare fino ai nostri giorni.

Effetto secondario, ma di assoluto rilievo: fatalmente, le storie narrate seguono la stessa scansione temporale. Ne deriva che quelle più “antiche”, al lettore di oggi, sembrano datate, se non è in grado (quasi mai, lo è) di contestualizzarle: legge un romanzo, senza aver contezza che è alle prese con un romanzo storico. Fatte le (in)debite proporzioni, è come se leggesse “I promessi sposi”: chi oserebbe, oggi, immaginarsi l’esistenza di un bulletto come Don Rodrigo, un Innominato, una monaca di Monza (oddio, forse sto scrivendo una bischerata: certi caratteri sono eterni. E’ la grandezza del Manzoni, e l’ignavia degli italiani. Mettiamola così)? Chi oserebbe, oggi, scrivere (come Scerbanenco) “I milanesi ammazzano il sabato”, ironico (ma nemmeno molto, in fondo) riferimento alla laboriosità meneghina, che induceva ad uccidere il sabato in quanto negli altri giorni si lavorava? Un dato dei nostri tempi è che di lavoro c’è penuria, e che, anche avendolo, si uccide (è il degrado!) quando fa comodo, punto e basta. Di passaggio, al massimo, il sabato (notte) ci si uccide, briachi come tegoli: dopo essersi venduti per cinque giorni, con un lavoro sul quale non si riversa alcun interesse, alienante, che deifica, nutrire l’illusione di ricomprarsi con una notte di sballo, di fatto ulteriormente straniante; quindi straziante, per l’uomo che osserva (io)...

A conferma dell’obsolescenza individuata: quella che racconto in “Ve lo assicuro io” appare una storiellina, e magari lo è, ma fino ad un certo punto. Per esempio: non lasciarsi ingannare dal linguaggio, che un critico anche imbecille e sicuramente disinformato (fino a quando non gli sono apparso, simile alla Madonna di Pompei, era persuaso che al Premio Gran Giallo di Cattolica avessi guadagnato una inesistente terza posizione, mentre avevo vinto l’unico premio in palio: la pubblicazione) ha definito da Chandler in sedicesimo, o giù di lì. In realtà, era il linguaggio che usavamo noi, i ragazzi che la domenica mattina, fra il 1964 e il 1968, si ritrovavano in Piazza San Marco, a Firenze, per combinare feste in appartamenti all’uopo affittati. Forse eravamo dei garzoncelli scherzosi, ma quello che ho usato è gergo che costituisce rispecchiamento del reale; fa parte dello spirito del tempo. Si può discutere la qualità del linguaggio nella direzione della pochezza dei soggetti che lo esprimevano, non la sua aderenza ai medesimi: sarebbe pernicioso. Goya ha ritratto impietosamente la “tribù” della corte spagnola: se i soggetti erano “brutti, sporchi e cattivi”, non era colpa dell’inventore di metà della pittura moderna. E’ tanto vero che i ritratti rimanevano estasiati dalla forza realistica del futuro Sordo. In più, la mia “storiellina” anticipa alcune tematiche affrontate successivamente da buon numero di Autori. Molto gettonate, per esempio, da coloro che scrivono gialli storici, ai quali, sommessamente, rimprovero scarsa conoscenza non tanto della storia, ché quella, con appropriate ricerche, si può ricostruire (ma a qualcuno, nemmeno quello è riuscito…) quanto dell’ideologia, e la mancanza, nei loro testi, di quello “spirito del tempo” di cui si diceva: una “temperie” che si può ricostruire solo avendo vissuto, quel tempo, oppure quello immediatamente successivo, a condizione di aver avuto sottomano alcuni dei protagonisti, da interrogare cautamente. Il mio romanzo parla inoltre di politica; purtroppo, non quanto risultava dal testo originario. Ordine tassativo, tagliare. E’ a furia di tagli e controlli, e anda e rianda, che il romanzo, vincitore del premio nel ’78, ha visto la luce nel 1980 …e di strascichi ideologici legati al disciolto partito fascista. Un bel “piattino”, nuovo per i tempi e, in specie, per il Giallo Mondadori. D’altronde, non è che avessi molte altre possibilità, per orientare un giallo: nel 1971 Firenze era popolata da malavitosi che erano in realtà dei rubagalline. Morale della favola, inutile ambientare a Firenze storie molto fantasiose; e incredibili. C’è, a tutt’oggi, chi s’inventa trame stiracchiate… buon pro gli faccia. A me servono storie piantate per terra come un sedano, di quelle che, come i sassi di Pollicino, segnano una traccia; che va a formare la storia di questo Paese. Questo, va a costituire la fuoriuscita dal genere, già oggetto, più sopra, di pensoso programma d’azione. Oltre al sottoscritto, ci sono diversi autori, che perseguono questo obiettivo (e nemmeno per passaparola, semplicemente, sono vocati a muoversi in una certa direzione)… Quelli che hanno dato, e/o danno, un orientamento peculiare al giallo italiano, attribuendogli questa funzione, che non è di mero intrattenimento: è il dato che risponde all’interrogativo posto.

Alberto Eva è una sorta di residuato bellico. E’ nato infatti il 5 febbraio 1940. Legge da 67 anni; scrive da 59, lavora da 57: tuttora, esercita la non semplice arte del tappezziere in stoffa. “Nasce al giallo” nel 1980, con Ve lo assicuro io; scritto nel 1971, vincitore del Premio Gran Giallo Città di Cattolica, nel 1978. Segue un lungo silenzio, fervido di inediti, resi tali dalla viva idiosincrasia degli italiani a leggere polizieschi autarchici; sentimento che ha percorso tutti gli anni ’80 e, parzialmente, i ’90, oggi rimosso al punto che siamo all’inflazione. Nel 2000 escono il romanzo “Per così poco”, e la raccolta “Toscana, delitti e misteri”. E’ l’inizio di una raffica di racconti pubblicati in varie antologie. Nel 2009 pubblica il suo terzo romanzo, “Sognando la California” (Marco Del Bucchia Editore), nel 2010 vince il premio “Orme Gialle” di Pontedera, col racconto “Dernier Cri”. Il 19 ottobre 2011 è uscito il suo quarto romanzo, Raccolto Rosso (Barbès Editore).