Prima ancora dell’avvento della letteratura pulp, c’è stata un’età dell’oro della letteratura di genere che spesso viene chiamata “avventurosa”. Cambiavano le ambientazioni e gli stili, cambiavano i personaggi e le filosofie di fondo, ma lo spirito era sempre quello: raccontare a tinte forti l’atavico fascino che i lettori provano per l’avventura e l’azione.
L’avvento del “giallo”, del mystery e delle detective stories ha sicuramente fatto passare in secondo (se non in terzo) piano questo tipo di letteratura d’evasione (nel verso senso della parola: evasione dalla civiltà), ma certo grande responsabilità va ricercata anche nella fine del colonialismo e della consequenziale perdita dell’idea di territori esotici da conquistare: se non ci sono terre vergini da esplorare, popoli misteriosi da studiare, creature sconosciute da incontrare... che fine fa l’avventura?
Ecco che in tempi moderni ci pensa il cinema, soprattutto quello di serie B, a rispolverare la letteratura avventurosa.
Può sembrare blasfemo accostare un ciclo di quattro film sull’anaconda gigante a scrittori celebri come Haggard o Burroughs, eppure questa tetralogia - con tutti i suoi difetti - può benissimo definirsi un omaggio filmico ai grandi temi avventurosi che scomparvero con l’avvento della modernità.
Si inizia con il film Anaconda (1997) del peruviano Luis Llosa. Questi, non per film d’azione come One Shot, One Kill (primo episodio della tetralogia dello Sniper) o Lo specialista, nel 1993 ha diretto 800 leghe sul Rio delle Amazzoni (Eight Hundred Leagues down the Amazon), tratto dal romanzo omonimo di Jules Verne (La Jangada. Huit cents lieues sur l’Amazone, 1881): si può proprio dire che Llosa porti l’avventura esplorativa nel cuore.
Tornando ad Anaconda, il film è girato in parte in vere location amazzoniche, come Manaus - città che affaccia sul celebre Río - ed è scritto da Hans Bauer (che nel 1999 torna ai grossi rettili con Komodo) e la coppia Jim Cash e Jack Epps jr., che hanno firmato le sceneggiature di grandi successi degli anni Ottanta, da Top Gun a Pericolosamente insieme, da Turner e il “casinaro” a Dick Tracy.
Il cast è stellare, da un’ancora acerba Jennifer Lopez ad Ice Cube, da Eric Stoltz ad una fugace apparizione di Danny Trejo. Ma il vero protagonista è solo uno: Jon Voight. La trama è semplice: girando un documentario sul Río delle Amazzoni, una troupe salva un misterioso naufrago che - fingendo di volerli riportare alla civiltà - guida la compagnia nel territorio dell’anaconda gigante, con poco limpide intenzioni venatorie.
Un incredibilmente bravo Jon Voight interpreta quella che può essere considerata fra le vette più alte della letteratura avventurosa: il capitano Achab del Moby Dick (1851) di Herman Melville. Va subito separato da qualsiasi intento filosofico o psicologico, qui Voight interpreta l’ossessione che il cacciatore sviluppa per la propria preda, per una preda in particolare. Non è ancora il Grande Cacciatore Bianco, che Haggard creerà nel 1885 - e che incontreremo più avanti - non vede la caccia come parte dell’avventura: è una sua sfida personale e privata, quasi intima con quella preda in particolare. In questo caso, con un anaconda gigante particolarmente prezioso sul mercato illegale.
Tutto il film sfrutta inizialmente le atmosfere del genere “sconosciuto a bordo”, ma poi inizia un gioco al massacro e tutti i personaggi diventano pedine nella partita a scacchi che Voight gioca con l’anaconda. Siamo lontani dagli stilemi che negli anni Settanta Steven Spielberg aiutò a creare con il suo Lo squalo; qui non c’è la “civiltà” che reagisce con orrore al pericolo invisibile che viene a disturbare le spiagge tranquille. Voight, come Achab, va a stanare l’anaconda a casa sua, nel suo mondo... anzi, nel suo Regno. Perché gli abitanti del luogo considerano l’anaconda un dio guerriero da rispettare, ed è proprio contro un dio - che magari stia di guardia a qualche tesoro - che un vero cacciatore ossessionato si va a scontrare: lo sfida nel suo regno e affonda insieme lui nell’abbraccio della morte.
Per il secondo film, Anaconda. Alla ricerca dell’orchidea maledetta (Anacondas, 2004), si abbandona l’Amazzonia e le atmosfere alla Moby Dick e si va tutti nell’arcipelago indonesiano, più precisamente nell’isola di Borneo (il cui nome autoctono è il più esotico Kalimantan). Malgrado venga specificata la località - una fantomatica provincia di Padrang - la troupe hollywoodiana non è andata a girare il film proprio laggiù, ma nelle “vicinanze”: le molto più accoglienti Isole Fiji che offrono in fondo paesaggi simili, come la cittadina di Deuba e il fiume navigabile Navua River dov’è girato gran parte del film.
Questa seconda pellicola - il cui titolo originale gioca con la “s” plurale già vista in Alien/Aliens - è diretto da Dwight H. Little, che ha esordito con l’horror (Halloween 4, Il fantasma dell’Opera) per poi passare all’azione (Programmato per uccidere, Drago d’acciaio), ai film per ragazzi (Free Willy 2) ed è infine approdato nel mondo televisivo. (Con la deludente parentesi del 2010 quando ha diretto un dimenticabile Tekken.) Stavolta gli sceneggiatori salgono a quattro: Michael Miner ed Edward Neumeier, i “papà” di Robocop, affiancano i meno esperti John Claflin e Daniel Zelman.
Da sempre serve un motivo più che valido perché un gruppo di occidentali sia così stupido da andarsi ad impelagare in una terra straniera e selvaggia - dove potrà incontrare la creatura protagonista della storia - e in questo secondo film nasce questo “motivo”: la Blood Orchid (Perrinia immortalis), l’orchidea maledetta del titolo italiano che dà tutta un’altra direzione al filone “serpentoni”.
Gli anaconda aumentano di dimensioni finché vivono; quelli del Borneo sono così esageratamente grossi perché nel locale ciclo alimentare c’è quest’orchidea, i cui effetti allungano la vita. C’è chi potrebbe farci parecchi soldi a vendere sul mercato un estratto di questa orchidea. Così dei responsabili di una industria farmaceutica, invece di mandare nel Borneo una squadra di professionisti, si tolgono giacca e cravatta e si tuffano nella giungla, con risultati assolutamente scontati.
In un cast di attori anonimi anche se dal volto noto, spicca l’eroe di turno, Bill Johnson, che al contrario del Voight/Achab è buono e nasce in pratica dalla tradizione di Tarzan: è muscoloso e taciturno, ha per compagna una scimmia e... lotta contro un coccodrillo! Caso vuole che l’attore newyorkese Johnny Messner - già il cognome sa di avventuroso! - abbia interpretato un ruolo secondario nella serie TV Tarzan del 2003. L’eroe nato nel 1912 dalla penna di Edgar Rice Burroughs si è ormai trasformato e non rappresenta più un’autoaccusa - l’uomo nato occidentale ma cresciuto nel mondo selvaggio che rimprovera alla civiltà i suoi vizi - bensì un normalissimo espediente letterario in ogni avventura al di fuori di terre anglofone per evitare che i personaggi si ammattiscano a parlare con i locali: in mancanza di un traduttore universale, meglio infilarci il personaggio dell’occidentale conoscitore del posto.
Comunque Johnson rappresenta davvero un Tarzan moderno. Non è cresciuto nella giungla ma nella guerra in Corea, e probabilmente è molto peggio. Ha compiuto azioni terribili e, finita la guerra, rifiutata praticamente la civiltà viziosa occidentale, vuole ricominciare una nuova vita semplice, in una bettola di un paesino dimenticato del Borneo... cosa c’è di più letterario di questo?
Il film procede come se fosse la prima storia d’avventura narrata, con un’innocenza invidiabile ma anche una freschezza da buon racconto d’appendice. C’è anche la scena dove Johnson, a torso nudo davanti al fuoco, si fa la barba con un coltello: sfoggio gratuito di machismo che farebbe più effetto se la stessa identica scena non fosse stata parodiata da Crocodile Dundee!
Anacondas è un film di avventura puro, anacronistico per la data in cui è stato girato ma proprio per questo può vantare un fascino d’altri tempi.
Per Anaconda 3. La nuova stirpe (Anaconda III, 2008) tutto cambia. I soldi ad Hollywood sono finiti e non si può più andare a girare alle Fiji: figurarsi in Amazzonia! I film girati esclusivamente per il mercato home video dai primi anni del 2000 ormai seguono tutti la stessa trafila: fanno i loro bei bagagli, lasciano la costosissima pellicola a casa, imbracciano la più economica telecamera e se ne vanno tutti in Romania. Opera prima (ed unica) dello sceneggiatore David C. Olson e diretto da un regista come Don E. FauntLeRoy, più abituato a compiti tecnici che artistici, Anaconda 3 è girato in Romania tra Bucharest e il Delta del Danubio.
Le foreste transilvane non hanno nulla da invidiare a quelle amazzoniche o del Borneo/Fiji: sono loro che aprono il film e fanno d’ambientazione ad una storia doppia. (Questo film e il successivo infatti vengono girati contemporaneamente.)
Malgrado il secondo film si chiudesse con la Perrinia immortalis ben protetta nella terra delle anaconda giganti, in qualche modo un riccone senza scrupoli se ne appropria, e visto che sta morendo pressa i propri scienziati perché ne estraggano un siero per allungare la vita. Per il momento, però, l’unico risultato è di ingigantire serpenti...
Appare qui il personaggio di Murdoch, interpretato da quel John Rhys-Davies che negli anni Ottanta fu celebre spalla umoristica del personaggio avventuroso di Indiana Jones - a sua volta figlio di quella letteratura avventurosa di cui stiamo parlando. È il cattivo per antonomasia - e i tratti orientali non guastano di certo - ma non è più un losco figuro che si liscia i baffi ridendo come un matto: è un imprenditore miliardario, il vero villain della modernità.
L’eroe stavolta è il personaggio interpretato da un sorprendente David Hasselhoff, che qui ha il nome di Hammett, ma con la crime fiction o l’hardboiled non ha nulla a che vedere: Hasselhoff qui interpreta il più moderno degli Allan Quatermain, il grande avventuriero nato nel 1885 grazie a H. Rider Haggard che cinema e televisione hanno più volte cercato di riportare in vita senza alcun successo. Paradossalmente, nella cultura filmico-popolare Quatermain viene rifiutato perché avvertito come clone di Indiana Jones... quando è vero l’esatto contrario!
Il tempo passa e Quatermain non è più l’affascinante avventuriero con il cappello sulle ventitré come lo interpretò Stewart Granger nel 1950, né il barbuto e agitato scavezzacollo di Richard Chamberlain nel 1985; né, tanto meno, il cupo viaggiatore dagli occhi tristi di Patrick Swayze nel 2004. Il personaggio torna alle origini pur se cambia: ritorna a quella selvaticità che a fine Ottocento lo rendeva esotico ed affascinante, ma che oggi ne fa un fuorilegge. Per un cittadino britannico scorazzante nell’Africa, uccidere qualche fiera qua e là non era certo un problema: oggi lo si chiamerebbe bracconiere. Hasselhoff interpreta un moderno Quatermain che non può essere altro che fuorilegge: un cacciatore-avventuriero specializzato in missioni particolarmente selvagge che prevedono anche la caccia ad animaloni. In particolare, serpentoni.
L’ultimo titolo, Anaconda 4. Sentiero di sangue (Trail of Blood), è la mera e sterile continuazione del precedente. Murdoch, già scottato dall’insuccesso del precedente esperimento con le orchidee, affida il prezioso fiore ad uno scienziato solitario che fa tutto da solo nel giardino di casa, riuscendo là dove aveva fallito un intero team di scienziati in un istituto dedicato. Però lo scienziato non dà più sue notizie e Murdoch paga un milione di dollari ad un pericoloso incapace per attraversare qualche boschetto e andare a raccogliere lo scienziato solitario. Ma Amanda (Crystal Allen) dopo le vicende del precedente film è ancora intenzionata a mandare in fumo i piani del miliardario e ci riesce. Muoiono i serpentoni e tutte le orchidee... finché qualcuno non ne troverà altre.
Sia questo che il precedente sono film talmente pessimi dal punto di vista tecnico che fa male agli occhi guardarli. Ci si deve abituare, però, perché ormai tutto il cinema girato per l’home video corre su questi binari. Erano spesso i binari che i grandi scrittori di storie avventurose avevano a disposizione: prima di diventare famosi o di avere libri rilegati a contenerli, spesso scrivevano su giornalacci e riviste considerate spazzatura.
L’avventura però non bada alla qualità dell’aria: lei vola e basta, e nessuno potrà mai fermarla.
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