Il traduttore che incontriamo questa settimana è Daniele Petruccioli, curatore delle versioni italiane di autori come Dulce Maria Cardoso (Le mie condoglianze e Campo di sangue); Philippe Djian (Imperdonabili e Incidenze); Antonio Manuel Pires Cabral (Il canonico); Jose Luis Pio Abreu (Come diventare un malato di mente) e Jean-Philippe Blondel (Vista mare).
Quand’è che hai deciso di diventare un traduttore? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovato in mezzo?
A 35 anni. Dopo molte traduzioni teatrali malpagate o non pagate proprio - lavoravo nel ramo ma con altre mansioni, e facevo traduzioni di servizio per le compagnie con cui lavoravo - ho deciso di provare a chiedere i diritti. I miei committenti hanno risposto picche, così ho deciso di provare con l’editoria, che i diritti non li concede lo stesso ma almeno una tariffa a cartella te la propone.
Testi teatrali a romanzi sono opere molto diverse: com’è stato il passaggio dai primi ai secondi? Liscio o con qualche increspatura?
Liscio no, perché una cosa è tradurre per la messa in voce - soprattutto la voce di un alto interprete - e un’altra è tradurre per chi legge solo con gli occhi. Certi giri sintattici, certi stilemi, non funzionano altrettanto bene se letti a bassa voce di quanto non accada quando si ascoltano pronunciati da un altro. Per quanto il teatro sia sempre un artificio, c’è una certa differenza tra la lingua parlata (sia pure ricreata ad arte) e il racconto scritto. D’altra parte tradurre il linguaggio teatrale mi ha insegnato ad ascoltare e riconoscere le diverse “voci” che ci sono in un romanzo, a cercare di immedesimarmi nei vari personaggi e dare a ciascuno la sua personalità. Credo che questo mi abbia aiutato molto a trovare, alla fin fine, la voce dell’autore.
Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?
Sono due cose molto diverse - o almeno credo, visto che non ho mai scritto nessun romanzo. Lo scrittore deve trovare le parole, il traduttore ce le ha già, ma deve scegliere quelle giuste in un mare di possibilità diverse, a volte anche contrastanti. Penso siano entrambe due belle gatte da pelare.
Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?
Nessuna. Non dipende dalla lingua - ognuna ha i suoi pro e i suoi contro, e alla fine secondo me si finisce in pari - ma dall’autore. Ci sono autori che sforzano la lingua fino a distorcerla, altri che sembrano perfettamente lineari ma in realtà nascondono un enorme lavorio ritmico e lessicale, altri ancora che sono facili e basta (oddio, a me non sembra facile nessuno - e poi, facili per te, magari poi quello che ti sembra difficile è facile per un altro e viceversa...). Comunque non lo sai mai, prima di avere cominciato.
Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?
No. Rispetto tutto quello che traduco. E in generale, siccome tradurre è un modo molto approfondito di leggere, è difficile non trovare mai qualcosa di buono. O forse sono stato solo molto fortunato.
Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?
Il testo più difficile in assoluto è stato Il libro dei fiumi di José Luandino Vieira, perché è un angolano che tratta il portoghese come Joyce trattava l’inglese, con forse un pizzico di violenza in più. Quello che più mi ha divertito in assoluto (dopo un periodo di discreto impazzimento, tuttavia) è stato Lettere, di Mark Dunn, perché una volta trovata la chiave la traduzione sembrava prodursi da sola. È stata la prima volta che più che un traduttore mi sono sentito un conduttore - nel senso del filo elettrico.
C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?
No. Ho sempre preferito dare voce agli altri altri, piuttosto che tradurre me stesso. È vero però che in ogni testo c’è sempre qualcosa che mi ricorda di me, in una strana maniera che commuove. Forse è questo il privilegio e anche il segreto di ogni interpretazione: non smaniare per raccontarsi, ma godere nel riconoscersi.
Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?
No, perché dovrei? E soprattutto, chi decide se una cosa è scritta male? Personalmente trovo orrendo lo stile di molti autori che vendono centinaia di migliaia di copie - quindi forse hanno ragione loro. Credo che un bravo traduttore non aggiusti niente, piuttosto trovi la misura giusta tra sé e quell’altra roba lì. Senza giudizio, che spetta ai critici e ai lettori.
La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?
Be’, ci sono dei limiti culturali entro cui muoversi, convenzioni, abitudini e così via. Ma è roba temporanea, che storicamente cambia. Piuttosto, bisogna saper riconoscere se l’autore primo si è attenuto alle abitudini e alle convenzioni della sua cultura, e fare come lui. Se lui ha spezzato, dovrò farlo anch’io, altrimenti no. Ma forse non ho risposto alla domanda. In realtà i limiti della traduzione cinematografica sono dati da un altro interprete che sta in mezzo: l’attore. È lui a stabilire i tempi e i ritmi di dizione, anche se è vero che i labiali e la quantità di sillabe in ciascuna parola dipendono dalla lingua. Ma il punto è che c’è un altro interprete di mezzo, e di questo bisogna tener conto. Da questo punto di vista e a parte i dettagli tecnici, la traduzione per il teatro non è poi tanto diversa - e forse nemmeno quella del romanzo. In fondo, cos’altro è un buon lettore, se non l’interprete ultimo...?
Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiero di aver curato la traduzione?
Niente di quanto ho tradotto mi rende particolarmente fiero. Più che altro, sono fiero di fare il traduttore.
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