Alan Hackman è il miglior montatore di filmati registrati dall’impianto Zoe, un chip ideato dalla Eye Tec che impiantato nel cervello di una persona è in grado di registrarne per intero la vita, così che una volta defunto il portatore, grazie alle registrazioni, si possa costruire un ricordo visivo chiamato Rememory da tramandare ai parenti.
Un giorno, mentre Alan sta lavorando al Rememory di un alto funzionario della stessa Eye Tech, scopre nel filmato un’immagine appartenente alla propria infanzia che lo perseguita da sempre...
Stanley Kubrick il final cut ce l’ha avuto sempre, mentre Orson Welles una volta sola, per Citizen Kane (dopo nisba, a partire dagli Amberson lui faceva e qualcun altro disfaceva…).
Anche qua le cose vanno come a Orson Welles: tu ci metti la vita, ma il final cut spetta a qualcun altro che monta e smonta, aggiunge e cassa come più gli aggrada, omettendo (è la regola bellezza…), le parti oscure, quelle che getterebbero il defunto dagli altari alla polvere. Tanto per chiarire di cosa si tratta:
1. l’impianto Zoe viene installato durante l’infanzia e svelato al portare al compimento del 21mo anno di età
2. via via che l’impianto Zoe ha preso piede, parallelamente si sono costituiti gruppi, tutt’altro che pacifici, anti-impianto, che accusano gli impiantisti di volersi sostituire addirittura a Dio
3. la rabbia dei gruppi anti-impianto si concentra in particolare sui montatori.
Robin Williams da quando ha smesso i ruoli leggeri, preferisce calarsi in personaggi che hanno a che fare con le immagini: prima una foto in un’ora (One hour photo), adesso questo The final cut, una sorta di spiegazione postdatata di Strange days (perché qualcuno le doveva pur montare le immagini che finivano negli Squid, o no?). Lui fa quello che può, è macerato al punto giusto, si sente colpevole (lo è almeno al 50%, anzi forse un tantino di più…), ama veramente il suo lavoro, lo fa con discrezione e meticolosità, e quando con un semplice click è costretto a cancellare le parti brutte della vita altrui si capisce che un pensiero gli attraversa la scatola cranica: "però sarebbe bello poter mostrare veramente chi era questo tizio…" (il tutto avviene davanti a una moviola digitale, chiamata “La ghigliottina”, che anziché traslucida come quella di Minority Report, è rivestita in legno, con un effetto niente male…).
D’altra parte in quanto montatore il tapino è costretto ad attenersi a delle regole estremamente rigide, secondo le quali nessun montatore può avere un impianto Zoe nel cervello, e soprattutto nessun montatore può mescolare assieme le immagini provenienti da due vite.
La situazione è questa, rigida, quindi fatta apposta per essere messa in crisi da qualcosa di apparentemente banale, come l’immagine di un signore che alla festa di un altro signore con un impianto nel cervello si pulisce le lenti degli occhiali con un pezzo della camicia. Da questo punto in avanti The final cut cambia radicalmente strada: da opera in qualche modo filosofeggiante, capace di mettere sul tappeto (senza che ciò disturbi troppo) una serie di domande niente male, tipo "È possibile ridurre una vita intera a una somma di immagini?", "A chi appartengono queste immagini?", "È lecito trasformare qualsiasi vita traboccante delle azioni più disparate in una parata edificante e per nulla veritiera?", in un thriller di mediocre fattura destinato ben presto a soccombere all’ambizione degli assunti di partenza che tali rimangono di fronte alla pochezza delle risposte. Comunque sia, prima che il film svacchi del tutto, una breve scena rende la pillola da mandare giù meno amara: con una certa delizia negli occhi, Hakman (Robin Williams), mostra a Delila (Mira Sorvino) gli inevitabili bug del sistema Zoe, spiegando come a volte a finire registrate sono delle immagini frutto per metà di ciò che hanno visto gli occhi, e per metà di ciò che ha visto il cervello. Risultato: un passaggio senza stacchi dalla soggettiva di un bambino che guarda i propri piedi innalzarsi da terra perché sta su di un’altalena, a un volo in piena regola tra le nuvole (sempre in soggettiva…). Precedente illustre e in parte assimilabile a questo: La morte in diretta, di Bernard Taverier, dove Romy Schneider, condannata da un male incurabile, era tampinata come un ombra da Harvey Keitel. La telecamera nel cervello ce l’aveva lui e le immagini registrate finivano a una rete televisiva…
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