Il bolognese (nato però a Campobasso) Alfredo Colitto è impegnato nel campo della letteratura in ben tre fronti: è scrittore, insegnante di scrittura creativa e (ovviamente) traduttore. In quest’ultimo campo ha curato autori come Mark Billingham (Maestro di morte, Effetti personali, La regola del sospetto) ad Andrew Vachss (La seduzione del male, La vendetta di Burke); da Stephen Leather (Macabri resti, Debito di morte, La tentazione del male); da Cody McFayden (Gli occhi del buio, L’ombra, Io confesso) a Lawrence Block (Il ladro che credeva di essere Bogart) al recente Io ti farò male di Derek Haas.
È in libreria con il suo romanzo di successo Il libro dell’angelo (Piemme), recentemente insignito del Premio Azzeccagarbugli.
Quand’è che hai deciso di diventare un traduttore? E, se non l’hai deciso, come ti ci sei trovato in mezzo?
L’ho deciso intorno alla metà degli anni Novanta, quando viaggiavo ancora molto e mi ero un po’ stancato dei soliti lavoretti che si trovano all’estero. Mi serviva qualcosa che potessi fare anche in giro per il mondo, e poiché nel frattempo avevo studiato e imparato lo spagnolo e l’inglese, l’idea di tradurre mi si è accesa in testa come una lampadina. Ho tradotto libri in italiano mentre vivevo in Messico, negli USA e in Nepal. Ma dovevo ancora spedire i manoscritti stampati per posta, perché all’epoca le case editrici consideravano la consegna via e-mail una cosa troppo avveniristica e poco sicura.
Secondo te è più faticoso tradurre un romanzo o scriverlo?
Scriverlo, senza dubbio. Tradurre non è affatto semplice, bisogna calarsi nello stile di un altro scrittore, fare prove, trovare la “voce” giusta. Ma non è nulla in confronto al dover riempire quattrocento pagine bianche con una storia che devi creare dal nulla. Naturalmente, la maggiore difficoltà dello scrivere è compensata da una maggiore soddisfazione...
Se hai tradotto da più lingue, quale secondo te è più “confortevole” nel passaggio all’italiano?
Io traduco dall’inglese e dallo spagnolo. Direi che lo spagnolo, che deriva dal latino come l’italiano, è più facile da trasporre, perché la grammatica e la costruzione della frase sono abbastanza simili alle nostre. Tuttavia mi piace di più tradurre dall’inglese.
Ti è capitato di tradurre un autore che proprio non sopporti?
Sì, più d’uno, ma naturalmente non farò i nomi. Oggi ho la fortuna di poter essere io a scegliere tra le proposte degli editori.
Il testo che più ti ha fatto ammattire a tradurre? E quello che invece più ti ha divertito?
C’è stato qualche romanzo (o saggio) che, traducendolo, hai avuto una gran voglia di aver scritto tu?
La lingua del fuoco, di Don Winslow (Einaudi).
Ti è mai capitato di aver voglia di “aggiustare” qualche passaggio mal scritto? Secondo te un bravo traduttore aggiusta o lascia così com’è?
Domanda difficile. A mio parere a volte bisogna aggiustare, se i problemi sono di natura sintattica o grammaticale. Se invece si tratta di scelte stilistiche, che il traduttore le trovi belle o brutte vanno rispettate senza modificarle.
La traduzione cine-televisiva ha dei limiti (tempistica, ritmo, labiale degli attori, ecc.): c’è un corrispettivo di questi limiti in quella cartacea (come per esempio il numero di pagine del libro finito)? E se sì, quanto possono influire questi limiti sul lavoro di traduzione?
Per finire, qual è il libro (o la serie di libri) di cui vai più fiero di aver curato la traduzione?
Più che di libri, preferisco parlare di scrittori. Quelli che amo di più tradurre sono Joe R. Lansdale, Don Winslow e Brian Freeman.
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