Marta, tredici anni. Dopo dieci anni trascorsi con la famiglia in Svizzera, torna a vivere a Reggio Calabria dove inizia la preparazione alla Cresima…
Girare per le sale è cosa buona giusta, e pazienza se tra pellicole passabili, altre così e così insomma, e bufale belle e buone, le prime due sovrastano quelle che meritano attenzione.
Per rimanere in tema, separare il grano dal loglio cioè, ecco Corpo celeste, una di pellicola che necessita uno sguardo, nemmeno particolarmente ben disposto perché tale è l’evidenza che trasuda che anche il meno attento tra gli spettatori si accorgerà lì, dentro lo schermo, nelle immagini che si avvicendano, si muove qualcosa che è impossibile non notare, per esempio la capacità dell’esordiente Alice Rohrwacher di raccontare con un tocco già maturo sia una “realtà neo-realista” (la periferia di Reggio Calabria), che qualcosa d’altro che ha a che fare con un registro chiaramente simbolico (ad esempio il viaggio con il parroco verso un paese abbandonato per recuperare un vecchio crocefisso utile alla manifestazione di accoglienza del vescovo…).
Insomma, la Rohrwacher, un passato (si fa per dire visto che si muove intorno ai trenta) da documentarista (pure sorella di Alba, vabbè…), sa come maneggiare due registri con i quali si rischia parecchio riuscendo a descrivere una vicenda pochissimo battuta dal cinema nostrano, perlomeno in questi termini, cioè la preparazione alla Cresima di una ragazzina alle prese con un contesto religioso attraversato da contraddizioni quanto mai profonde, lacerato com’è tra rampantismo (Don Mario, più votato al voto di scambio che ai doveri di parroco…) e pratiche religiose (la catechesi, la processione) talmente ingenue che sfiorano la farsa.
Sballottata tra sacramenti che oramai hanno perso qualunque appiglio con la fede (Gesù e karaoke, anzi il contrario…) e lo spaesamento che la crescita si porta sempre dietro (il menarca, raccontato con una semplicità disarmante…), Marta (Yle Vianello) attraverserà non senza difficoltà la via strettissima tra istanze personali e le pressioni della catechista Santa (Pasqualina Scuncia, un altra figura di assoluta rilevanza, drammaticamente ingenua, personaggio da melodramma classico innamorata perdutamente di Don Mario…) trovando la soluzione nell’unico posto dove questa esiste, cioè dentro se stessa.
Insomma, un diventare grandi in un mondo che proprio non si capisce (e che forse un giorno, tra molti anni si continuerà a non capire…).
Uno dei pochissimi film da vedere (magari insieme al Vangelo di Pasolini e a Totò che visse due volte, che non diteci che non l’avete visto…).
Meritatissimo Nastro d'Argento 2011 ad Alice Rohrwacher come miglior regista esordiente.
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