La tredicesima edizione del Far East Film Festival di Udine, accompagnata da un logo scaramantico (una mano intenta a fare le corna) e dal motto “doing it right”, ha visto protagonisti alcuni degli ingredienti che l’hanno reso popolare fra gli appassionati: primo fra tutti la commedia, che nelle sue varianti romantic comedy, teen comedy, black comedy, rock n’ roll comedy, erotic comedy e horror comedy rappresenta ogni anno di più il cavallo di battaglia del Festival. Essendo appassionata in maniera viscerale di Cina e Hong Kong, come sempre a Udine ho teso a concentrarmi su queste due cinematografie trascurando il resto, per cui quello che leggerete sarà un resoconto volutamente di parte (o quasi).
Un esempio di commedia a cui è stato dato molto spazio a livello mediatico è stato il remake cinese della commedia americana What Women Want, diretto da Chen Daming e interpretato da Andy Lau e Gong Li. Al di là dell’interesse per il genere (e chi scrive non ama particolarmente le commedie romantiche), grandi blockbuster cinesi come questo rappresentano un lampante segnale di cambiamento culturale: fino a qualche anno fa prendere un film straniero e realizzarne un remake era una prerogativa hollywoodiana, ossia della più potente cinematografia mondiale che, avendo soldi e potere (quasi) assoluto sul resto del mondo, poteva dettar legge arrivando anche a decidere di trasformare in americano ciò che non lo era, riaffermando così la tendenza alla cannibalizzazione/neutralizzazione dell’altro che è sempre stata tipica dell’industria di Hollywood e del soft power americano tout court. Nella sua tenace e inesorabile corsa alla conquista del mondo, la Cina sta mettendo in campo ogni arma a sua disposizione, compresa quella dell’entertainment, che più di ogni altra permette di entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo. Quella a cui stiamo assistendo, insomma, non è una semplice variante cinematografica per fare più soldi, ma una vera e propria strategia di guerra e, fidatevi, vincerà la Cina (ma non solo perché Andy Lau e Gong Li sono più belli e intelligenti di Mel Gibson e Helen Hunt…).
Dalla commedia al comico il passo è breve. All’Asian comedy in senso molto vasto è stata dedicata una delle due retrospettive di quest’anno, Asia Laughs; a farla da padrona è stata sicuramente la comicità di Michael Hui, produttore, regista e attore hongkonghese, che è stato insignito del primo premio alla carriera mai assegnato al FEFF, il Gelso d’Oro. I suoi The Private Eyes (di cui è anche regista) e Chichen and Duck Talk (diretto da Clifton Ko) hanno senza dubbio rappresentato alcuni degli highlights del festival. La sua frase “I hope comedies will make a better world”, pronunciata prima della proiezione del secondo film qui citato, decisamente rappresenta lo spirito con cui il FEFF è stato creato e continua ad essere progettato: un caleidoscopio di immagini e risate frizzanti, nella convinzione che questo possa far svanire o almeno lenire il dolore del mondo (basti pensare al disastro di Fukushima, a cui il festival ha risposto con l’iniziativa di raccolta fondi per le vittime, FEFF for Japan).
Un’altra costante del FEFF è l’action/thriller/martial arts motion picture, solitamente virato in chiave hongkonghese. Dante Lam, presenza ormai costante al Festival di Udine, anche quest’anno ci ha regalato un action thriller, The Stool Pigeon, più convincente dell’ultimo Fire of Conscience e interpretato da un ottimo Nicholas Tse (giustamente premiato agli Hong Kong Film Awards 2011 per la sua interpretazione) e da Nick Cheung. Decisamente sopravvalutato invece si è rivelato Punished di Law Wing-cheong, prodotto da Johnny To e interpretato da Anthony Wong: benché si sia cercato di non ammiccare alla Mainland (non ci sono infatti, come ormai accade in quasi tutti i film hongkonghesi, superstar di lingua mandarina) confezionando una storia tipicamente HK, con un accenno agli scontri fra ditte di costruzioni immobiliari e residenti dei New Territories, la zona più povera dell’isola, la storia e la narrazione sono troppo fiacche e poco coinvolgenti per appassionare davvero: perché mai dovremmo commuoverci per una figlia così antipatica, viziata e volgare come la Daisy interpretata da Janice Man? Per non parlare dei colpi di scena e delle presunte scene violente: tutto sembra già visto, finto e privo di emozione.
Un altro genere spesso presente al FEFF è il drama, che quest’anno ha visto per la prima volta concorrere una pellicola di Zhang Yimou, Under the Hawthorn Tree, arrivata seconda all’Audience Award e che ha commosso la platea per i toni delicati con cui narra una storia d’amore e dolore nella Cina maoista. Un film decisamente insolito per Zhang, a tratti persino raccapricciante, se si pensa allo sfondo politico quasi del tutto (volutamente?) cancellato dal regista. Lontanissime, se non addirittura provenienti da un altro mondo, sembrano ormai le metafore oblique e indirette di capolavori come Lanterne Rosse. Che Zhang Yimou sia anche lui vittima del puro entertainment in chiave romantica?
Un ingrediente che quest’anno era forse meno presente e incisivo rispetto agli altri anni è stato invece l’horror, genere che però a mio avviso ci ha regalato la vera perla della tredicesima edizione del FEFF: trattasi del tanto chiacchierato Night Fishing del coreano Park Chan-wook, in collaborazione con il fratello Park Chan-yong (i due si firmano con la sigla PARKing CHANce): girato con otto IPhone diversi e della durata di trentatré minuti, forse rischia di essere paradossalmente sottovalutato proprio per il gran clamore che ha suscitato ancor prima di essere visto. In realtà Nightfishing è una piccola opera d’arte, in cui i Park esplorano il significato della morte e del dopo morte affidandosi a immagini oniriche dove l’orrore si trasforma in dolore prima e in liberazione poi. Più che un semplice horror sul ribaltamento dei ruoli, Nightfishing è un intenso esorcismo e insieme un dolce requiem, volto a cancellare la perdita e il rimorso nella serena accettazione della fine.
Infine, il gesto scaramantico delle corna che ha scandito la tredicesima edizione del FEFF ironizza su una pesante incognita: il futuro stesso del Festival come progetto che prende corpo anno dopo anno, non come singolo evento. Come dichiarato dal Centro Espressioni Cinematografiche nel catalogo di quest’anno, il Festival è “sganciato dalla logica dell’Evento, che si costruisce estemporaneamente; e da qui nasce il timore, indipendentemente da scelte politiche, di non vedere assicurati al Far East Film un futuro e una nuova programmazione”. Speriamo che l’allegria e le lacrime racchiuse nei film scelti ogni anno con cura dal team del FEFF possano continuare a brillare dagli schermi del Visionario e del Teatro Giovanni Nuovo, fino a seppellire ogni avversità.
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