«Raggiunte le pagine finali del Paradiso, la Commedia può essere molte cose, forse tutte le cose»: così nel 1951, sulle pagine de La Nación, Jorge Luis Borges testimoniava il suo profondo amore per Dante e per la Commedia. Eppure quelle “pagine finali” non vanno date per scontate come lo sono oggi: Francesco Fioretti ci trasporta in un mondo antico in cui il Paradiso dantesco non è ancora nella forma da noi conosciuta, e ci parla de “Il libro segreto di Dante”.

Anche l’amore di Fioretti per il poeta fiorentino è profondo e solido, oltre che attenta materia di studio. Dopo essersi interessato alla saggistica, l’autore passa al romanzo per guidare i lettori in un territorio sconosciuto: ciò che si nasconde nei versi della Commedia dantesca.

Abbiamo incontrato Francesco Fioretti e gli abbiamo posto alcune domande.

 

La prima domanda è d’obbligo: cos’hanno, secondo te, Dante Alighieri e il suo mondo che li rendono così affascinanti ancora oggi?

Dante scriveva in un’epoca in cui il libro, scritto e copiato a mano, poteva dare all’autore l’onore e la fama, ma non la ricchezza, se non quella proveniente, in seguito, dall’onore e dalla fama. Lui dichiara di scrivere per coloro «che questo tempo chiameranno antico», per i posteri, e dunque si ripromette dal suo lavoro semplicemente l’eternità. È libero di scrivere per quelli che verranno, ovvero per noi, e già questo lo obbliga a guardare lontano. Così sottopone il suo tempo al giudizio di un ente remoto che lui chiama Dio, e lo osserva da grande distanza, con gli occhi dell’eternità, appunto. È questo il segreto della sua longevità: ci racconta i suoi contemporanei facendone però degli exempla di validità universale, li narra con estrema concretezza figurativa ma fissandoli in gesti e parole che ne fanno figure dinamiche e immobili allo stesso tempo, come certe sculture michelangiolesche o di Rodin (non a caso sto citando due grandi ammiratori di Dante). E, come accade con le statue di Michelangelo e Rodin, quelle figure continuano sempre a trasmettere il messaggio e l’energia che in loro ha impresso l’autore.

 

Il tuo thriller storico è un’occasione per conoscere tantissimi particolari sulla vita e l’opera del poeta fiorentino: pensi che se le stesse cose le avessi scritte sotto forma di saggio avrebbero riscosso lo stesso interesse?

Certamente no. Un saggio è un’opera chiusa, si deve dimostrare qualcosa a forza d’argomentazioni e documenti d’appoggio. Un romanzo

Il libro segreto di Dante
Il libro segreto di Dante
è un’altra cosa, qualche mistero insolubile può anche essere lasciato aperto. In più, dove i dati mancano, puoi colmare con la fantasia.

Finora ti sei occupato di saggistica e narrativa scolastica: cosa ti ha spinto verso il romanzo? È stata una nuova sfida o l’hai sentita come una naturale evoluzione della scrittura?

Fino a trent’anni volevo scrivere romanzi ed ero ossessionato dal tarlo di dover trovare a tutti i costi un’idea originale su cui imbastire una trama. Poi, quando da tempo non ci pensavo più, è venuta l’idea e mi sono messo a scrivere il romanzo. All’inizio ho faticato un po’ per la tendenza alla digressione didascalica, poi via via la scrittura si è sciolta. Il prologo, ovvero il primo capitolo ambientato in Terrasanta, un brano tutta azione, è in realtà l’ultima cosa che ho scritto.

Il tuo romanzo si basa in modo quasi perfetto su reali dati storici: cosa ne pensi invece dei romanzi che partono da un contesto storico per poi stravolgerlo? (Penso a “La vendetta di Machiavelli” di Raphaël Cardetti.) Avresti mai scritto una storia sul mondo di Dante che si allontanasse di parecchio da quello storico?

Ogni romanzo ha il diritto di crearsi le proprie regole del gioco, a patto che il sistema sia coerente e motivato, ovvero l’infrazione alla norma del genere letterario non deve mai, a mio avviso, essere del tutto gratuita. Anche il mio romanzo si consente degli scarti dalla regola; le avventure di Bernard, l’ex-templare, ad esempio, non risultano sempre plausibili, ma c’è una ragione: è un cavaliere imbevuto, come Don Chisciotte, di romanzi cavallereschi, è un uomo del Medioevo che crede alle visioni, e quando resta solo non c’è neanche un Sancio Panza che possa relativizzarne il punto di vista, per cui, anche se non crediamo a ciò che leggiamo in quella parte del romanzo, sappiamo che lui vive così le sue avventure, e non ci resta che sospendere il giudizio della nostra ragione ordinatrice e cartesiana.

La “Divina Commedia” è un’opera amata in tutto il mondo: credi che noi la sappiamo apprezzare quanto lo fanno gli altri? Dovremmo tornare ad impararne brani a memoria in età scolastica?

Pagina di un codice dantesco del Trecento di un miniaturista anonimo
Pagina di un codice dantesco del Trecento di un miniaturista anonimo
Non è tanto la memorizzazione dei brani che ci difetta, io ho imparato a farlo a venticinque anni, se me l’avessero imposto a scuola non credo che sarebbe stata la stessa cosa. Quando capisci che l’Ulisse di Dante parla di te, magari lo fai spontaneamente, per il gusto di ripeterti il canto XXVI dell’Inferno nella sala d’attesa del medico di base, per riuscire a sopravvivere alle due ore torride senza condizionatore e ricordarti che non sei fatto a viver come bruto... Il nostro vizio (un vizio antico, che risale al classicismo rinascimentale) è piuttosto quello di leggerlo per canti scelti staccati dalla trama complessiva, perdendoci la visione d’insieme, il travaglio dell’itinerario completo dalla selva opaca del mondo alla luce della verità: una degustazione per brani che ci fa perdere a volte la fitta trama di rimandi a distanza e il significato complessivo dell’opera. D’altra parte a scuola sarebbe forse impossibile altrimenti.

Il tuo romanzo sicuramente verrà accostato a thriller che vantano elementi come “codici” e “Templari”: sei d’accordo se affermo che mentre la maggior parte di questi titoli si basa su speculazioni, il tuo romanzo invece si basa su un’interpretazione di reali dati storici?

Sono d’accordo. Nel romanzo ci sono anche i Templari, uno dei quali trova un codice nascosto e parte alla ricerca dell’arca dell’alleanza, ma è Bernard, il cavaliere e lettore di romanzi cavallereschi di cui parlavo prima, che ha delle forti motivazioni a trovare quello che cerca e alla fine crede anche d’averlo trovato. Con questo personaggio volevo indagare la psicologia del cacciatore di misteri, del lettore ieri del Perceval, oggi di Dan Brown, un archetipo eterno della cultura europea che oggi sembra godere di una formidabile reviviscenza. E le radici mi sembra di trovarle in una crisi economica, morale, politica, che somiglia moltissimo a quella attuale: dall’età delle rissose e aperte democrazie comunali (l’età di San Francesco, Tommaso d’Aquino e Dante), si passa alla crisi trecentesca, alle Signorie, alla chiusura oligarchica della politica e al mondo di Petrarca e Boccaccio, al ripiegamento nell’interiorità del primo, alla rappresentazione spregiudicata, da parte  del secondo, di una società che s’è fatta materialista e individualista più che mai. La ricerca dell’oggetto misterioso, del Graal o dell’arca perduta, si colloca in questo contesto, in questa crisi delle ideologie forti, che allora portò, fino a Cervantes, ad una fuga nel cantare cavalleresco, oggi a quella nelle favole alla Tolkien o alla Dan Brown; ma la ricerca è condotta senza pregiudizi ideologici, tant’è che l’ex-templare Bernard, a detta di molti lettori, è una delle figure più vive e riuscite del romanzo.

Anche l’ultima domanda è d’obbligo: progetti per il futuro?

Finire la mia ricerca sulle Rime di Dante.