L’attacco alle Torri Gemelle fu un pugno nello stomaco. Ancora oggi - sono passati dieci anni e bin Laden è stato opportunamente rimosso dallo scacchiere - molti ricordano cosa stavano facendo quell’undici settembre 2001. Io stavo preparandomi ad andare alla Libreria del Giallo per assistere a un’incontro con Jeffrey Deaver. Nel frattempo traducevo... un romanzo di spionaggio per Segretissimo. La catastrofe non arrivava a ciel sereno. Nei mesi precedenti c’erano state avvisaglie che anche il pubblico non addentro ai segreti dell’intelligence poteva cogliere. La distruzione dei grandi Buddha da parte dei Talebani erano un segno di intolleranza religiosa molto forte. Così come poche settimane prima lo era stato l’omicidio di Shah Massoud, capo dell’Alleanza del Nord che da sempre si opponeva all’islamismo più integralista. Dal canto mio, come autore, proprio nel luglio precedente avevo scritto Operazione Salamandra che prevedeva un attentato integralista nel cuore dell’Occidente. Personalmente devo dire che la sensazione che sarebbe presto scoppiato un ‘ brutto affare’ con il mondo islamico l’avevo colta a Parigi attraverso una serie di discorsi fatti con mediorientali che frequentavano il mondo degli sport da combattimento. Discorsi, intuizioni e non sempre compiaciute. C’era, da parte dei mediorientali che vivevano in Europa il disagio di fronte a una crescente intolleranza che l’amministrazione Bush, appena salita al potere, aveva certamente esasperato. Negli ultimi anni prima del 2D in campo narrativo c’erano state altresì delle avvisaglie di questo tipo. Intuizioni lo ricordo ma pur sempre raggelanti se riconsiderate oggi. Ricordate The Long Kiss Goodnight di Renny Harlin?( Spy in italiano con Geena Davis)? Un gruppo deviato dei servizi segreti americani si allea con un vecchio nemico per scatenare il panico, quindi una nuova corsa al riarmo e nuove iniezioni di fondi. Un’autocisterna destinata a esplodere in un paesino il giorno di Natale. Il colpo mediatico delle Torri Gemelle sembrava fantascienza anche se Clancy l’aveva in qualche modo predetto in uno dei suoi romanzi con i kamikaze giapponesi che si schiantano con un aereo sulla Casa Bianca. Ma non così scenograficamente perfetto, non così esattamente calcolato per scatenare una guerra che ancora dura oggi e non è certo terminata. Magli scrittori, come la presero? Se di Operazione Salamandra abbiamo più volte parlato il romanzo scritto esattamente un paio di mesi prima (Vlad: il primo della lista) risultò spiazzato. Quando uscì la sua ambientazione newyorkese era chiaramente indenne da ogni genere di attacco terroristico. Infatti, l’edizione nuova del romanzo (probabilmente in elettronica) che sto preparando dovrà tenere conto anche di quella serie di eventi che hanno cambiato la concezione stessa del racconto di spionaggio. Per un poco la narrativa di genere continuò a proseguire l’onda lunga del decennio precedente, inserendo al massimo qualche elemento di attualità. Brad Thor ( I leoni di Lucerna) inseriva solo un breve accenno alla lotta al terrorismo islamico nel suo primo romanzo, ma si manteneva saldamente sul filone che maturava in quegli anni. Se il protagonista era spesso l’ex Seal o l’ex SAS passato dal servizio militare a quello segreto ( una figura che univa le doti del classico agente con licenza di uccidere a quelle del soldato) si sviluppava sempre più un filone tipicamente americano. ‘Il complotto di potere a Washington’ è sempre stato tra i generi dello spionaggio ma adesso che i dubbi sulla effettiva lealtà dell’intelligence emergevano di prepotenza, tale tematica diventava di attualità. La spy-story internazionale rimase bloccata. Ricordo che Codice Swordfish fu tenuto in stallo per mesi(almeno in Italia) perché conteneva per immagini e temi allusioni (involontarie) alla situazione attuale. E lo stesso avvenne per il mediocre Danni Collaterali in cui Arnold affrontava terroristi bombaroli, anche se di provenienza sudamericana e non islamica. Il concetto, mi spiegò Sergio Altieri, che ai tempi aveva ancora parecchi rapporti con l’industria cinematografica americana, era quello di non aggiungere dolore al dolore. Mi ricordo che un funzionario editoriale milanese mi guardò sghignazzando: ‘Ormai è finita. Lo spionaggio è superato dai tempi...cambia mestiere...’. Simpatico e ottuso. Come quell’altro curatore di collane noir dieci anni prima, accecato dalla sua visione politica antiamericana commentava lo scarso successo di Rambo 3 perché. ’Ormai i Russi se ne sono andati dall’Afghanistan’.E questo significa che non c’erano mai stati? Però è curioso che le stese persone che di spy-story narrativa non avevano mai capito una cippa, ripetessero le stesse frasi a distanza di dieci anni. Il Muro di Berlino era caduto, quindi la spy-story non aveva più ragione di esistere. L’attacco al WTC aveva segnato una evidente ( benché controversa) sconfitta dell’intelligence occidentale, quindi perché scrivere di questo genere che ‘divertiva’ i lettori? Riemerge, sempre e comunque, un astio verso la narrativa pulp che si abbina con la pervicace volontà di scoraggiare gli autori. Questo significa che una certa classe dirigente dell’editoria ha paura delle storie che si possono raccontare con lo spionaggio. Perché? Perché sono vicende complesse, che richiedono cognizione di causa, inventiva, capacità di strutturare trame solide e divertenti. Doti che, mi pare scarseggino in una linea letteraria nostrana falsamente colta, amante della bella paginetta ma incapace di intrattenere il pubblico. Non è così all’estero. Norman Mailer ha scritto con Il fantasma di Harlot(del 1992), un grandissimo romanzo letterario e una intrigante spy-story (anche se, ammettiamolo, non di facilissima lettura e forse non assimilabile al filone di spionaggio più avventuroso) e ha potuto farlo perché nei paesi anglosassoni l’intrigo internazionale ha sempre avuto un suo valore di denuncia oltre che di intrattenimento. In Italia, no. Si può parlare di corna, di nevrosi, di minoranze con diritti negati, ma se ci si spinge ad affrontare in forma anche fiction la cronaca si cammina su un terreno pericoloso e, al meglio, si viene etichettati come autori di nicchia (parleremo in altra sede di Montecristo, liquidato come semplice romanzo thriller). Ma questa barriera non ha fermato la creatività degli autori di spy-story. Esattamente come la presunta incapacità dei servizi segreti di intercettare gli attentatori del WTC non metteva fine alla guerra della spie. Anzi, ne giro di pochissimo tempo l’attività di intelligence riprese sempre più frenetica, con nuove tecnologie e nuovi problemi. Dopo un periodo di buonismo creativo ( mentre l’amministrazione Bush scaricava tonnellate di bombe sull’Afghanistan e, soprattutto, si preparava a inventare la balla colossale delle armi di distruzione di massa per mettere a ferro e fuoco l’Iraq che con al-Qaeda non c’entrava una cippa!), il cinema riprendeva a raccontare spy stories, lo faceva con vigore anche la narrativa scritta e, soprattutto, lo spionaggio approdava nella sua forma più cruda in televisione. Ora, era in atto da circa un decennio una minirivoluzione nelle serie televisive. Non più lunghissimi polpettoni fatti di mini episodi più o meno scopiazzati dal cinema(a eccezione di alcune serie come l’inglese The Professionals degli anni ‘80 che resta una delle cose migliori mai prodotte sul terrorismo... ma si trattava di materiale britannico... europeo quindi). Con X-Files era iniziata un’era di lunghe saghe con una continuità interna che si alternava a episodi autoconclusivi. E, guardacaso, il fil rouge di X-Files più interessante era proprio quello in qualche modo spionistico con il complotto, l’uomo con la sigaretta, il delatore Gola Profonda. Tutto questo preparava una grande rivoluzione e forse la serie che più ha influenzato il modo di intendere lo spionaggio degli ultimi anni. Stiamo parlando di 24. Dopo il 2001 con l’immagine così poco positiva ed efficiente che la CIA aveva per il grande pubblico (dopo decenni in cui ogni film e romanzo la dipingevano comunque come verminaio dei peggiori intrighi) ci fu un tentativo di riproporne l’immagine in maniera costruttiva. The Agency ( da non confondersi con il recente The Company, ispirato al romanzo verità di Robert Littell che affronta la storia della CIA con l o stesso disincantato occhio di The Good Sheperd)non fu un successo. Troppo smaccatamente positiva la raffigurazione dei servizi, storie concepite con un vecchio schema e per di più legate alla Guerra fredda. 24 invece arriva come una meteora. Ora, devo dire di aver visto sin dalla prima serie tutto la stagione di seguito. All’inizio me la passava un amico che l’aveva registrato tutto, credo da Telepiù, in seguito ho sempre comprato i cofanetti in originale. L’effetto fu dirompente, infatti non riuscivo a smettere di guardare. Credo che della prima serie feci una tirata di almeno otto puntate di fila. Il meccanismo era così avvincente, il ritmo e le vicende talmente ben strutturate da lasciare un’impronta anche sulla mia produzione successiva. Fondamentalmente però, al di là dei temi base della prima stagione ( gli intrighi presidenziali e la minaccia dei terroristi balcanici) la novità erano proprio i protagonisti. Jack Bauer riportava l’eroe al centro dell’azione. Un eroe vero, tormentato ma anche violento, assertivo, deciso a tutto. Il meglio di due scuole narrative che negli anni si erano quasi sfidate a distanza. Jack Bauer era un master spy capace di ordire e uscire da intrighi caratterizzati da continui cambiamenti di alleanze e l’uomo d’azione che non esita a sporcarsi le mani. A torturare e uccidere, minacciare e servirsi della violenza se lo ritiene giusto. E la violenza, soprattutto per un prodotto televisivo, non era finta, uno scherzo, ammorbidita. Tutto nella prima serie congiura contro il sistema nervoso dello spettatore, dall’inanellarsi dei fatti, alla scansione in tempo reale(più o meno realistica non importa) al feroce colpo di scena che priva lo spettatore del lieto fine, ma al tempo stesso lo compiace perché, ormai è chiaro, storie con una pacifica risoluzione del caso e un ritorno alla calma sono ormai cose del passato. In sette stagioni e un film di raccordo (più un altro film in lavorazione) 24 ci ha insegnato a dubitare di tutto, a cambiare fronte continuamente, a lottare sino allo spasmo senza pietà da ogni direzione. E questa dinamicità che mescola cronaca, realismo, burocrazia dei servizi e malavita e ovviamente passioni umane sembrano essere la formula vincente del filone di spionaggio più classico e realistico, che affonda le sue origini in Deighton e LeCarré ma ha la dinamicità di Ludlum e la ferocia dei film di Hong Kong.