Se il finire degli anni Novanta ha segnato la definitiva scomparsa del cinema statunitense prettamente marziale, il finire della prima decade del 2000 - con la crescente passione per le mixed martial arts - ne ha segnato un’inaspettata rinascita, anche se di dimensioni molto ridotte. Il fenomeno delle martial girls non sembra essere in grado di rinascere, ma il sottogenere delle pink fighter ha un breve singulto di novella vita. Ricordiamo che il sottogenere - il cui nome si è inventato per questa rubrica per indicare più precisamente il fenomeno - si riferisce a quei film in cui la protagonista femminile finisce (costretta o meno) nel giro di incontri clandestini, mondo spietato e violento che ha dato ad un florido e mai sazio sottogenere marziale tipicamente maschile: il Pit Fighter (nome, questo sì, esistente).
Nel suddetto periodo appaiono due film che ben rappresentano il pink fighter: “Rigged (Fight Night)” (2008) e “Bare Knuckles” (2010).
“Rigged (Fight Night)” è probabilmente nato dall’interesse suscitato dal fim “Million Dollar Baby” (2004), ma al di là dell’uso della boxe non ha nulla in comune con il titolo di Clint Eastwood: è un film che segue fedelmente i dettami del Pit Fighter, dettami che - lo ricordiamo - nascono nel 1990 con il film “Lionheart - Scommessa vincente”. (Per un approfondimento sul sottogenere, sulla sua nascita e sviluppo, si invitano i lettori a ripescare un vecchio articolo di questa rubrica: “Scene dalla vita di un Pit Fighter”, CineFurious 17).
Michael Dublin (Chad Ortis) è un manager di incontri di lotta clandestini: è giovane ma è già un fallito. I suoi lottatori non vincono, e se vincono poi lo mollano, mentre lui non è in grado di stare al passo con i manager “professionisti”: cioè spietati e doppiogiochisti. Una notte finisce in una rissa e viene salvato da uno scricciolo di ragazza (Rebecca Neuenswander), che con i suoi pugnetti atterra un energumeno il triplo di lei; nella mente del manager si accende subito la proverbiale lampadina e fa di tutto perché la donna diventi una sua lottatrice.
Inizia così un road movie con la coppia male assortita che si sposta di paese in paese e di incontro in incontro, guadagnando qualcosa ma prendendo anche un sacco di batoste.
Perché Katherine combatte? Perché rischia di venir massacrata ogni notte? La risposta è nebulosa, così come in realtà la trama di tutto il film: si è voluto puntare molto sul tema “donna che combatte contro uomini” da dimenticarsi di scrivere anche una sceneggiatura un po’ più soddisfacente: i momenti importanti - come quando il manager si troverà davanti l’inevitabile scelta se tradire o meno la propria lottatrice - sono tutti tagliati di netto da altri film del genere, con ben poca originalità.
Il problema principale, però, rimane il mistero su quale superpotere abbia la donna protagonista: come si spiega altrimenti che riesca a battere lottatori professionisti decisamente più grossi di lei?
Dopo questa variazione sul tema, si torna alla pura versione Lionheart al femminile nel film “Bare Knuckles” (letteralmente “a nocche nude”, termine che si usa per indicare l’antica forma di boxe, eseguita infatti senza guantoni). Decisamente un film girato in economia, in formato video - la pellicola era decisamente troppo costosa! - e con attori improvvisati. D’altronde il regista Eric Etebari - che si ritaglia anche un ruolo cameo - non cercava certo la “prova di bravura”: è un film tutto sommato onesto che ruota intorno a delle donne disperate che non hanno niente nella vita se non il proprio corpo da far combattere in ring improvvisati.
Come sa chi segue il filone Pit Fighter, i lottatori protagonisti disprezzano i soldi guadagnati lottando illegalmente, e quindi per riscattarsi quasi sempre li regalano ad una donna incinta o a una giovane madre: nel caso di “Bare Knuckles”, è proprio la giovane madre a combattere, quindi non ha problemi a tenere per sé il denaro ottenuto con muscoli e sangue. Ha una bambina con seri problemi neurologici e non può certo andare troppo per il sottile.
La curiosità del film è che l’attrice protagonista, Jeanette Roxborough, è realmente la madre della bambina in questione: non a caso la storia viene presentata come ispirata a fatti realmente accaduti - sebbene la cosa ci lasci fortemente dubbiosi.
Malgrado la pochezza di mezzi, come si diceva, e l’inettitudine di gran parte del cast, questo film risulta più stuzzicante rispetto al precedente, proprio perché presenta personaggi molto più decisi e incisivi, e lascia parlare i corpi - aspetto fondamentale in un film marziale, anche se fin troppi autori se ne dimenticano.
Uno degli elementi portanti è la presenza di Martin Kove, celebre caratterista di molti film degli anni Ottanta nonché “maestro cattivo” della trilogia di “Karate Kid”. Qui lo ritroviamo nelle inedite vesti di un manager dal cuore d’oro, cioè squattrinato e inguaiato; Sonny (il suo personaggio) non ha abbastanza pelo sullo stomaco per macchinare alle spalle dei propri lottatori, e così ha finito per non averne più. Scoperta per caso Samantha, decide sì di sfruttarne la bravura - e il bisogno - per fare soldi, ma anche proteggerla dal mondo spietato degli incontri clandestini.
Malgrado questo personaggio in più punti ricalchi quello di Joshua in “Lionheart”, lo stesso il risultato è soddisfacente e Kove risulta essere di gran lunga più bravo di tutti gli attori in scena.
Il punto di vista marziale è purtroppo il più dolente: solo un paio di attrici - in realtà vere bodybuilder passate al cinema - hanno una seppur vaga idea di cosa siano le arti marziali: per il resto i combattimenti sono girati con tanta buona volontà ma con pochissima capacità: l’idea della “mamma spaccaossa” è divertente, ma la messa in pratica non convince assolutamente.
Torneranno mai al cinema del martial girls? Ce lo auguriamo, visto che la sola presenza di questi due film è un faro nella notte: qualcun altro potrebbe seguirne la scia e regalare ai fan qualche altro prodotto, magari superiore.
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