E’ un crepuscolo dolce e morbido, del tutto fuori stagione. Il tizio rugoso si sistema al mio fianco: non si chiedono permessi per ficcare il naso da queste parti. Il taxi non arriva. Siamo soli, io e lui, davanti alle mie foto di famiglia. Sfoglio. Lui guarda.

Le foto del matrimonio di mio fratello.

Non c’ero.

Foto di numerose estati.

Bambine, in costume da bagno: mia nipote, poi io.

Rido, in acqua. Adoro questa foto. Ho i capelli bagnati, e niente addosso: quasi uno scandalo. A pensarci, non mi spiego come questa foto sia sfuggita alle cicliche epurazioni di mia madre. C’è qualcosa che non so di lei. C’è sempre qualcosa di molto importante che non si arriva a conoscere delle proprie madri. Anche quando le si ama molto. O quando si giunge ad odiarle con un’intensità inconfessabile.

Il taxi. Chiudo le foto dei ricordi, mi alzo, faccio un cenno al tizio rugoso che ho lasciato entrare per distrazione nella mia vita e salgo sul taxi.

-Dove?

Dove non ci sono dolori.

-Via Cala di Pietra 9.

Nella luce strana e gialla che investe la cima dei palazzi si consuma una stagione sbagliata, ora mite dopo il grande freddo che ha segnato il funerale di mia madre in settembre. Sorrido, mentre il taxi scivola oltre il viale, l’unico grande di questa città, e i palazzi dorati scompaiono dalla mia visuale.

Mi piacciono i crepuscoli, mi piacciono gli uomini che son stati re, mi piacciono i morenti perchè la malattia li rende permeabili al mondo e finalmente capaci di capire. Con alcune, rare eccezioni, mia madre una di queste. Mi piacciono le facce assassine, ma solo dopo l’omicidio, quando hanno toccato la morte e se ne sono ritratte, per continuare a vivere col dolore di quello che hanno fatto.

Non mi piace questa casa dove arrivo. Pago il taxi. Entro.

Dico sempre che non sono stanziale, ma non è vero. Forse non del tutto.

Qui torno, adesso, con una specie di piacere incompleto, di chi vorrebbe appartenere, ma non può.

Non morirei a separarmi da questo posto: sono stata lontana tanto tempo, e non mi è mancato. E nel tempo, prima e dopo il funerale di mia madre, ho spazzato via tutto quello che c’era: mobili, vestiti, feticci della persona che ero. Sono rimasti i muri, spogli e bianchi. E tutta questa luce, un miracolo insperato. Nei mesi di malattia di mia madre, tornando a intervalli regolari, ho arredato pian piano un mondo che potessi abitare per un po’. E come sempre l’ho fatto prima ancora di sapere cosa stavo facendo. Ho cominciato a capire quando di colpo mi sono trovata a costruire il luogo segreto: la camera oscura, il nido.

Chi non ha mai sviluppato una foto non conosce posti come questo. Mi muovo senza vedere davvero nella luce rossa. Un sentore di sangue che invade la stanza, quasi che la sensazione potesse passare dagli occhi al naso per tornare agli occhi, a cercare una conferma, e trovarla.

Blu Klein: il mio colore preferito. E’ il colore delle mie foto quando affiorano, qui dentro: pozze d’azzurro in cui si formano le immagini, come bambini nell’acqua. Venere dalle onde. Prima profili, poi un disegno preciso, la curva del mento, un viso inclinato. Labbra che si scuriscono per gradi. Il viso che a poco a poco si costruisce, formandosi senza fretta. E’ questo che mi piace della fotografia tradizionale: il ritmo

dello sviluppo. In quel tempo lento, ogni fotografo elabora l’immagine che vedrà e non sempre, quando essa appare davvero, è in grado di riconoscerla. A volte, per anni, vede solo un segreto: una faccia che misteriosamente si discosta da quella che aveva immaginato. E’ quella la fotografia vera: l’immaginario non realizzato, quello che non arriverà a farsi, sulla carta, imitazione di realtà.

E tuttavia, anche così le mie foto sono bellissime. Dicono che sono vive, hanno l’anima che gli assassini hanno per sempre perso. E’ un’idea troppo astratta per i miei gusti. Io amo le mie foto, non perché hanno senso, ma perché sono belle.

Fuori dalla camera oscura, c’è questo vuoto grande e bianco, parquet lamato, un materasso in una piccola stanza in fondo, una cucina minuscola al lato dell’ingresso, luci segrete. Cuscini. Un pavimento vuoto.