Livio Aragona è uno scrittore noir cinquantenne, la sua vita è scandita dalla scrittura e dagli impegni collegati ad essa. Ha una moglie con cui non sta più assieme e un’amante cui si sente sempre più legato, un’allieva conosciuta a uno dei suoi corsi. Livio tenta di vincere un importantissimo premio letterario e i colpi di scena tra scrittura, ragion di stato editoriali e amore non tardano ad arrivare mentre l'elemento suspense giunge sotto forma di inquietante personaggio...
Ma leggete come l'autore ha risposto alle mie domande sul libro.
Livio Aragona evoca reminescenze latine e storico/letterarie nel nome e un rimando spagnoleggiante e regale, nel cognome. Ha la tua età e ha vissuto esperienze simili, in primis la scrittura: un tuo alter-ego? In cosa in particolare ti assomiglia?
Be’, come sempre ho preso dalla mia vita quello che serviva per la storia e il personaggio. Ci sono moltissimi dettagli reali, selezionati perché erano efficaci e non per il capriccio di parlare di me stesso. La differenza fra uno che fa narrativa e uno che si fa le pippe è questa. Diciamo che fra le coincidenze più evidenti ci sono il mestiere, il fastidio per la folle etichettatura di giallista, l’insegnamento della scrittura creativa, la partecipazione a un talk show pomeridiano della Rai, le telefonate mattutine alla madre, gli ambienti milanesi. Molte altre cose non mi appartengono. Per esempio non mi fotografo nudo davanti allo specchio al mattino di ogni primo gennaio, come fa lui da trent’anni. Non ho avuto una storia d’amore con una mia allieva che fosse più brava di me a scrivere. Il mio editore non è quello ritratto nel romanzo. Non sono sposato e separato. Mio padre non ha lasciato mia mamma ed è ancora vivo e vegeto. Le mie origini sono lacustri e non montane.
Estrapolando le molte citazioni sulla scrittura si potrebbe comporre un piccolo ma sostanzioso vademecum sul mestiere dello scrittore: ma alla fine, chi è lo scrittore?
Alla fine nessuno ha sintetizzato il mestiere dello scrittore meglio di Pessoa, nella famosa lirica in cui dice che il poeta è un fingitore che arriva al punto di fingere di provare il dolore che davvero sente. Tu parti dal tuo dolore e lo fai diventare una storia, cioè crei un’intelaiatura narrativa che non coincide con la tua vita, con le tue giornate, ma dentro la quale metti le emozioni che stanno davvero nella tua vita e nelle tue giornate. In particolare quelle più intense e spesso, bisogna dirlo, quelle più negative: il dolore, la paura, la nostalgia di un passato irrecuperabile, il senso di scacco. In questo senso “fingi”: presti ai tuoi personaggi cose che ti appartengono. Questo mettere pezzi consistenti di te stesso nelle tue pagine provoca un’anormale vicinanza fra produttore e prodotto, scrittore e scrittura, che è la vera maledizione di questo lavoro.
“L’esordiente” è una giovane donna non particolarmente talentuosa ma determinata nel perseguire il lavoro di scrittrice. È bella e affascinante e corteggiata. È il ritratto di alcuni fenomeni d’esordio di oggi? A un certo punto mi sono chiesta se sarebbe stato possibile sostituirla con un’altra tipologia di esordiente: non bella, anziana, ma molto, molto brava. Sarebbe stato fattibile o le novità editoriali, quando riguardano il femminile, sono limitate da esigenze di mercato?
Una cosa divertente di questo libro è che è un libro profetico. Quando l’ho scritto non immaginavo che avrei partecipato (con il romanzo precedente) al premio Strega. Quindi non sapevo di avere imbroccato una coincidenza impressionante fra Veronica Markus, la giovane autrice che il protagonista ama come donna ma non stima come scrittrice, e un personaggio come la Avallone. Perfino l’editore era quello giusto: Rizzoli! Per tornare alla tua domanda, la bellezza non dovrebbe avere niente a che fare con il merito letterario, però è un fattore che dà vantaggi in tutti i campi. È inutile far finta che non sia così. Comunque esempi della controtipologia che tu proponi ce ne sono parecchi, sia per femmine che per maschi, e tutto sommato lo Strega l’ha vinto Pennacchi.
A pagina 36 Livio si dichiara non contrario alle pubblicazioni a pagamento, adducendo come argomentazione il fatto che lo stesso Moravia lo fece con “Gli indifferenti”. Le pubblicazioni indiscriminate non comportano rischi?
Infatti io non sono per nulla d’accordo con Livio. Più esattamente, Livio dice quella cosa in un contesto particolare: sta parlando ai suoi allievi del fatto che non necessariamente la passione per la scrittura ha come sbocco un contratto di pubblicazione per Einaudi (come un mio allievo ha appena firmato, e per tre libri!). Uno può trarre dalla scrittura anche soddisfazioni parziali: postare i suoi racconti o le sue poesie su internet, per esempio, oppure seguire una delle tante strade offerte da forme di editoria non tradizionale. Sconsiglierei invece a tutti di pubblicare a pagamento. Si tratta al 99% di pseudoeditori che non ti distribuiscono nemmeno il libro. Quel tipo di pubblicazioni ti serve solo a poter millantare su Facebook che sei uno scrittore, e a proiettare un’immagine illusoria e paranoica di te stesso.
Nella stessa pagina parli del talento e del fatto che non si può “acquistare/acquisire” con un corso di scrittura. Cos’è il talento per la scrittura? Da cosa si capisce se c’è o manca e allora ogni sforzo per ottenerlo sarà vano?
È molto difficile dare una risposta semplice a questa domanda. Intanto c’è nella valutazione del talento letterario e del valore di un testo una grande componente di soggettività. Come dice lo stesso Livio, la letteratura non è il salto in alto: lì se salti 2 metri e 40 la misura è quella, non c’è da discutere. Se dovessi schematizzare in modo brutale, direi che uno scrittore deve dare al lettore, in cambio della sua attenzione e dei suoi quattrini, almeno una di queste tre cose: una bella storia (ambientazione più trama più personaggi), una scrittura importante, dei contenuti originali. Partendo da questi tre elementi si possono fare delle combinazioni. Scrittura più contenuti? Busi, Aldo Nove. Storia e basta? Ammaniti. Scrittura e basta? Per fare un esempio altissimo, Joyce. Soltanto contenuti? Il primo libro di Houellebecq, oppure Il danno di Josephine Hart, libri scritti malissimo e narrativamente monchi, ma con un contenuto indimenticabile. Quando ci sono tutti e tre i fattori, abbiamo Kafka.
Pag. 137: “Com’è bello andare in giro da soli ma non essere soli”. La solitudine dell’artista e dell’uomo come condizione esistenziale.
Leonardo ha detto: “Sii solo e sarai tutto tuo”. L’osservazione di Livio è più accorta: la solitudine te la godi quando in realtà sai che a casa ti aspetta qualcuno, o che c’è una voce che risponderà sempre al telefono. Quando invece sei davvero solo, e a me è capitato per la maggior parte della mia vita, sospetti sempre che gli altri siano più felici di te. Per la scrittura, la solitudine e il silenzio sono condizioni essenziali per me ma non per tutti. Pinketts scrive al bar, come Claudio Magris. Il mio amico Fois scrive in casa in mezzo al disordine e al rumore che fanno i suoi figli, senza isolarsi.
Francesco è un editor giovane e geniale. A pagina 173 scrivi: “Ha anche un grande vantaggio su molti editor che conosco: non lo rode il tarlo di essere lui stesso uno scrittore mancato o futuro. Lui fa l’editor e basta”. Ho trovato molto interessanti questi incursioni nel mondo dell’editoria, queste brevi rivelazioni a tratti impietose, che denotano comunque una grande passione per la scrittura e i suoi dintorni. Perché chi non è esente da questo tormento ha bisogno di parlarne e condividerlo?
Perché la scrittura è diversa da tutto. Anche considerandola come mestiere; anzi, direi soprattutto in questa prospettiva. Se ricordi, nel libro viene detto che tutti i lavori sono equivalenti sotto l’aspetto della fatica, sia quelli di routine sia quelli cosiddetti creativi. Non è la fatica a fare la differenza fra me e un impiegato postale che cerchi onestamente di rispondere con gentilezza al bombardamento di domande, richieste, lamentele che gli fanno ogni giorno degli sconosciuti. È piuttosto il dolore. È impossibile, almeno per me, scrivere senza provare dolore. Mi è già capitato di paragonare la scrittura al body building, che infatti pratico. Il nemico del body builder non è la fatica, l’affanno, come molti pensano; quello casomai tocca a chi fa attività aerobiche. Il tuo avversario è il dolore, perché le fibre muscolari vengono come distrutte e ricostruite ogni volta. Con la scrittura è lo stesso.
Nel romanzo compaiono diverse riflessioni su Dio. A un certo punto il protagonista si definisce un “cattolico-ateo”. Premesso che in quel contesto sei già stato molto chiaro, la domanda è: in cosa crede e in cosa non crede un cattolico-ateo?
Non crede in Dio, ma crede nella fede degli uomini. Livio è molto chiaro, e penso che il delirante talk show in cui esprime questo concetto sia una delle pagine migliori del libro. Lui dice: se la felicità vincesse sulla verità, io potrei costringermi a credere in Dio e vivrei meglio, perché la fede dà una forza immensa a chi ce l’ha veramente. Ma io non posso costringermi a credere, non posso fingere davanti a me stesso che Dio esista, se penso che non esista. E allora la ricerca della verità vince sulla ricerca della felicità, e io mi ritrovo solo a combattere contro il nulla, la morte, l’immensità ostile del cielo.
Ci saluti con una citazione dal romanzo?
Be’, rimaniamo in tema: Nessuno dovrebbe morire, mai! Meriteremmo di salvarci tutti, anche i vigliacchi, anche gli assassini e i torturatori. Non per le nostre azioni che non valgono niente ma perché tutti, nessuno escluso, siamo testimoni di angoli e pieghe del mondo, del tempo, che con noi spariranno. Almeno questo, dio mio, dio nostro, se è vero che stai da qualche parte e spii gli uomini, come una serva sbircia dal buco della serratura. Almeno questo!
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